Outsider, perché da esordiente ha bruciato tutte le tappe ed è arrivato alle candidature scelte del Premio Strega 2025. Eccentrico rispetto alle traiettorie dei grandi marchi editoriali, perché il suo libro, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, è un caso editoriale sostenuto da uno spontaneo e pervasivo passaparola, che ha trainato nella cinquina finalista la giovane TerraRossa Edizioni. Molteplice: perché Michele Ruol è, prima di tutto, un professionista della sanità pubblica. Ogni giorno veste il camice del medico e lavora a tempo pieno in ospedale, a Treviso, nel reparto di Anestesia e rianimazione del Ca’ Foncello. Del suo romanzo Walter Veltroni, che lo ha proposto allo Strega, ha scritto: «È il racconto del vuoto lasciato nella vita di due genitori, Padre e Madre, dalla morte improvvisa dei loro due figli, Maggiore e Minore. Tutto, in un istante, cambia senso e direzione, perde peso, si fa vuoto, puro vuoto».

Michele Ruol, nasce prima lo scrittore o il medico?
«Questa è la domanda di tutta la mia vita. Ho sempre avuto il piacere di scrivere, fin da studente; al punto che, intorno all’esame di maturità ero ancora indeciso: Medicina o Lettere? Ero lì, davanti a quella scelta, e continuavo a girarci intorno, pieno di dubbi».

Cosa ha fatto pendere la bilancia per Medicina?
«Mi piaceva l’idea di avere a che fare con l’altro, con la relazione di cura, tipica di tutte le branche della medicina. Così mi sono avviato per la strada della professione: prima Chirurgia pediatrica, poi la specializzazione in Anestesia. Sono, di fatto, un medico anestesista. Ma in realtà è anche vero che non ho mai smesso di scrivere».

Una doppia vita?
«In qualche modo... La scrittura è una parte che ho sempre cercato di salvaguardare. Per lungo tempo ho scritto per me (assiduamente, e con continuità: anche interi romanzi, che sono rimasti nel cassetto). Poi ho iniziato a pubblicare dei racconti su alcune riviste; ho cominciato a lavorare a testi teatrali e alcuni sono diventati spettacoli: la mia scrittura è andata in scena, è diventata in qualche modo pubblica. Finché, nel 2020, non ho messo mano a una storia che avevo in testa, così è nato Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia».

Qual è il talento più prezioso per un medico?
«Ci sono aspetti diversi; la preparazione e lo studio sono fondamentali. Però c’è anche una parte di ascolto, che è vitale. Saper ascoltare è, credo, il talento che può fare la differenza. C’è a chi viene naturale, ma penso anche che questa sia una facoltà che vada esercitata, aiutata, ampliata. Con volontà».

Quando è che riesce a scrivere?
«Avere un mestiere su turni ti obbliga a gestire la concentrazione. Scrivo in ogni momento libero. A me piace molto scrivere di notte, col buio, quando non sono al lavoro. Ma ho imparato a sfruttare qualunque spiraglio e va benissimo anche il mattino».

Anche il suo romanzo affronta una questione di cura.
«Sì, anche se in maniera non programmatica e non esibita. La letteratura può essere un’ancora nel momento in cui riesce a renderci meno soli. Capita quando una storia ci fa sentire che quello che riguarda le nostre vite non riguarda solo noi. È questo, credo, uno dei meccanismi attraverso i quali la letteratura può farsi cura. Quando ho iniziato a scrivere Inventario, la mia intenzione era di accompagnare i miei personaggi nell’incontro con il loro dolore, che è un dolore privato, che mobilita reazioni diverse e comporta il coinvolgimento di differenti risorse emotive».

La copertina del libro di Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa edizioni). Il romanzo è entrato nella cinquina finalista del Premio Strega, vinto il 3 luglio da L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli).
La copertina del libro di Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa edizioni). Il romanzo è entrato nella cinquina finalista del Premio Strega, vinto il 3 luglio da L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli).

La copertina del libro di Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia (TerraRossa edizioni). Il romanzo è entrato nella cinquina finalista del Premio Strega, vinto il 3 luglio da L’anniversario di Andrea Bajani (Feltrinelli).

Il suo romanzo si occupa di dolore, ma anche di sospensione del dolore. Ci sono, nelle difficoltà che i suoi personaggi incontrano, delle analogie con una condizione di anestesia esistenziale
«Non ci avevo pensato, ma è vero. Lo è soprattutto nel caso del personaggio che chiamo Padre, che opera un vero percorso di negazione tentando di rispondere al dolore con la forza, con l’impegno: uno sforzo destinato a fallire, perché il dolore viene allontanato finché non presenta il conto, e il risultato è paralizzante. Succede, da medico, di trovarsi davanti a reazioni di questo tipo».

Accade più negli uomini o nelle donne?

«Credo che in quest’ambito la differenza tra donne e uomini sia legata più che altro a costrutti sociali che influenzano e incasellano spesso il nostro agire in determinati ruoli. Secondo questi schemi purtroppo è comune per gli uomini che la fragilità venga meno ammessa, e che anche la comunicazione del proprio mondo emotivo spesso risulti difficile».

In che modo la sua professione di medico comunica con il mestiere di scrittore?
«Il punto di contatto è la parola. La medicina è fatta di tante cose, però c’è questa componente umana, imprescindibile per fare in modo che quella del medico non diventi una pratica asettica. Servono rigore, oggettività, ma anche connessione. Non è un caso, credo, che tantissimi medici abbiano lasciato un segno proprio come scrittori: penso a Celine o a Čechov, tanto per dire i primi che mi vengono in mente».

C’è, tra quelli di scrittori-medici, un testo che sente più vicino?
«Le Memorie di un giovane medico di Michail Bulgakov, che va letto e riletto. Io, per lo meno, fin dalla prima volta che l’ho incontrato, l’ho sentito come un luogo di riferimento. È un testo letterario altissimo, ma anche dal punto di vista della professione medica è notevole. Chiaro che, nella Russia di inizio Novecento, non c’è nulla di tutto quello che oggi abbiamo a disposizione, in termini di conoscenze, tecniche, attrezzatura nel campo delle professioni sanitarie. Ma Bulgakov centra esattamente la questione: le paure di un uomo che sente il peso, i rischi e la responsabilità di farsi carico degli altri uomini. Avrò fatto bene? Non starò procurando male? Come affrontare il male altrui, come alleviarlo, toglierlo, guarirlo? Sono tutte domande che passano nella testa di un medico, inevitabilmente. Agire, decidere, temere di sbagliare: quel dottore di Bulgakov, all’inizio della sua carriera, incarna esattamente qualcuno a cui avrei potuto confidare anch’io gli stessi timori».

Nel suo romanzo lei racconta la trama della vita di una famiglia dal punto di vista della memoria che persiste nelle cose che le sono appartenute. Questo Inventario assomiglia un po’ a una operazione clinica: il controllo dei parametri vitali di un nucleo umano.
«È vero. Gli oggetti sono la giusta distanza che mi è servita per raccontare la storia senza venirne bruciato. Sentire senza essere travolti dal coinvolgimento emotivo è anche la dimensione necessaria tra medico e paziente: l’esercizio dell’empatia».

Il suo libro ha vinto, in successione, il Premio Berto, il Megamark ed è finito, da esordiente, nella cinquina dello Strega. L’avrebbe fatta, un anno fa, una anamnesi così per Inventario?
«No, assolutamente. La mia felicità era già nella gratitudine di vederlo pubblicato. Da lì in poi, è stata una sorpresa continua. Sono felice. E un poco incredulo».