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L’idea che l’ambiente influenzi, e molto, la nostra salute è antica. Già nel IV secolo a.C. il medico greco Ippocrate, nel suo trattato Sulle arie, sulle acque e sui luoghi, invitava a «considerare le stagioni dell’anno [...], i venti caldi e i freddi, le proprietà delle acque, [...] la posizione della città». Secoli dopo, nel 1500, il tedesco Georg Bauer, detto Agricola, teorizzò che l’aria delle miniere della Slesia contenesse un “fiato degli spiritelli” in grado di corrodere i polmoni. Solo negli anni Cinquanta si scoprì che a provocare il cancro nei minatori era l’inalazione di radon e nel 1993 furono promulgate raccomandazioni sulla protezione dal gas radioattivo nelle case e nei luoghi di lavoro.
Oggi si è sviluppata una disciplina che studia il modo in cui la nostra salute è condizionata dal mondo esterno. Dopo decenni in cui la ricerca si è dedicata soprattutto alla lettura del nostro immenso patrimonio ereditario, il genoma, l’interesse della scienza si è concentrato sull’esposoma, ossia l’insieme delle nostre esposizioni a fattori come l’inquinamento, il clima, l’alimentazione e le nostre risposte biologiche.
Il perché lo sintetizza uno dei principali esperti di epidemiologia ambientale a livello mondiale, Paolo Vineis, docente all’Imperial College di Londra e membro dell’Accademia dei Lincei: «Circa il 90% delle malattie croniche, come cancro, diabete, patologie cardiovascolari e neurologiche, è spiegato dall’ambiente e non dai geni».


Paolo Vineis, docente di Epidemiologia ambientale all’Imperial College di Londra
Professore, negli anni Duemila c’è stato un grande interesse intorno al sequenziamento del genoma umano, perché si riteneva che potesse fare luce sulle cause delle malattie. Non è stato così?
«Non esattamente, perché la maggioranza delle patologie non ha un’origine ereditaria, cioè non deriva da mutazioni o varianti dei geni ereditate dai genitori, ma da esposizioni ambientali. Lo dimostrano le persone emigrate, che non portano con sé il rischio di malattia del Paese di origine, ma acquisiscono quello del Paese di destinazione. È accaduto, per esempio, agli italiani in Australia, ai francesi in Québec, ai giapponesi negli Stati Uniti. In quest’ultimo caso, i nipponici presentavano dopo la migrazione gli stessi rischi di malattia degli americani: quindi bassi tassi di cancro dello stomaco e alti tassi di tumore del colon. Il contrario di ciò che succedeva ai compatrioti rimasti in Giappone. Se le patologie di cui parliamo fossero principalmente ereditarie, questo non sarebbe accaduto».
Quando è stato avviato lo studio delle esposizioni ambientali?
«Benché ci sia una lunga tradizione (pensiamo agli studi sull’amianto condotti negli anni Venti e sul fumo negli anni Cinquanta), 15 anni fa si è iniziato a parlare di esposoma come modalità di ricerca sistematica, ovvero l’influenza dell’ambiente sulla salute umana, parallelamente al genoma e alle risposte dell’organismo ai fattori esterni».
Con quali strumenti si misurano gli effetti dell’esposoma sulla salute?
«Si sono affinati gli strumenti di misurazione nell’ambiente esterno e inoltre hanno avuto grande sviluppo le scienze omiche, basate su tecniche di laboratorio (per esempio, campioni di sangue). Questo dà origine a un’enorme produzione di dati, che vengono poi analizzati con metodi statistici e di intelligenza artificiale (machine learning). Si va dalla genomica, che studia il Dna, all’epigenomica, che convoglia le informazioni sull’espressione del genoma, dalla proteomica, che consente di misurare l’insieme delle proteine, alla metabolomica, che permette di analizzare l’insieme dei metaboliti, cioè i prodotti del metabolismo. Per esempio, possiamo isolare le molecole presenti in campioni di sangue o di urine prelevati da persone sane e da persone affette da una malattia, e comparare i risultati con le misurazioni ambientali».
Quali misurazioni ambientali?
«Dipende dalla ricerca specifica. Possiamo analizzare i prodotti alimentari industriali più venduti, la presenza di microplastiche nel cibo, la frequenza dell’obesità o gli stili di vita come l’attività fisica, e ancora esposizioni esterne come l’inquinamento dell’aria, il riscaldamento globale, gli agenti patogeni in grado di provocare una pandemia eccetera. Con tecniche di analisi sensibili come la spettrometria di massa è possibile identificare nel terreno o nelle acque composti ancora sconosciuti, anche avendo a disposizione piccole quantità di materiale».
E poi si incrociano i risultati…
«Esatto, incrociamo i dati dell’esposoma esterno e i dati omici, stimoli esterni e risposte dell’organismo. Oggi, per esempio, il nostro gruppo è coinvolto in una ricerca europea sui PFAS utlizzando le metodiche che ho descritto».
I PFAS (sostanze perfluoroalchiliche) si trovano ormai dappertutto: dalle pentole antiaderenti a indumenti, fino ad alcuni imballaggi alimentari. Che fate, in generale, se osservate effetti negativi?
«Se osserviamo che qualche composto o abitudine ha effetti negativi sulla salute o può averli nel tempo, pubblichiamo i risultati, diffondiamo le informazioni e speriamo che i governi prendano provvedimenti per limitare i danni… Naturalmente è importante anche pubblicare i risultati negativi degli studi».
E la politica ascolta la scienza, secondo lei?
«Purtroppo non avviene spesso. Alcune questioni, poi, devono essere affrontate su scala globale, ma oggi viviamo in un mondo molto diviso. In passato, il vaiolo e in seguito la poliomielite sono stati sconfitti grazie a uno sforzo comune coordinato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Allora, nonostante la Guerra fredda, è stata attuata una collaborazione tra Unione Sovietica e Stati Uniti per vaccinare contro queste malattie anche i Paesi poveri. Adesso siamo in un mondo multipolare, in cui succede che la scienza viene messa in discussione. Per questo non si può essere molto ottimisti».
Teme il populismo di Donald Trump, negli Stati Uniti, e di alcuni Stati europei?
«I movimenti populisti tendono a svalutare l’efficacia dei vaccini, a sovrastimarne gli eventi avversi o ad attribuire loro effetti che non hanno, come l’autismo. Un altro cardine del populismo è negare l’origine antropica del cambiamento climatico e non voler mettere in atto strategie concrete mirate a contrastarlo, come puntare sulle energie rinnovabili. Per inciso, soluzioni fantascientifiche come quella prospettata da Musk di migrare su Marte sono del tutto inaccettabili».
Il cancro, tradizionalmente considerato una patologia dell’invecchiamento, colpisce sempre più spesso anche persone giovani. Secondo lei questo ha a che fare con le esposizioni ambientali?
«È possibile, ma è difficile stabilire al momento a che cosa sia dovuto, per esempio, l’aumento dei casi di tumore del colon in persone con meno di 50-55 anni. Sono in corso alcune ricerche, condotte, per esempio, dal mio collega Marc Gunter dell’Imperial College oppure dagli esperti del Centro internazionale di ricerche sul cancro di Lione, in Francia».
Si studia l’esposoma anche per contrastare l’obesità, dilagante tra i bambini?
«Certo, gli stili di vita contano molto di più della genetica. Volendo essere precisi, l’impressionante aumento dell’obesità in quasi tutte le popolazioni in anni recenti significa che i geni svolgono un ruolo limitato, anche se a livello individuale c’è un’interazione tra la suscettibilità genetica e i comportamenti come gli stili alimentari e la scarsa attività fisica. La propensione a ingrassare nella stragrande maggioranza dei casi dipende dal fatto che c’è uno squilibrio tra la quantità di calorie assunte e l’attività fisica. Il numero di ore dedicate all’attività sportiva a scuola è troppo esiguo e, in generale, i bambini in Italia hanno spesso scarse opportunità di praticare uno sport, magari perché appartenenti a una classe sociale disagiata o perché le strutture sono carenti, specialmente al Sud. A ciò si aggiunge l’eccesso di ore trascorse davanti a tv, videogiochi, smartphone. Di recente alcune ricerche scientifiche hanno posto l’accento anche sulla qualità dei cibi: nel fenomeno dell’obesità parrebbe implicato il consumo abituale di alimenti detti ultraprocessati, preparati di origine industriale che sono ipercalorici, ma nel contempo poco nutrienti perché contengono poche proteine, vitamine, elementi minerali».
Sempre più frequente nei bambini è anche la miopia: dipende ancora una volta dagli stili di vita, vero?
«Senza dubbio è un problema legato all’ambiente. Negli ultimi anni si è verificato un rapido cambiamento degli stili di vita dei bambini, che trascorrono poco tempo all’aperto, a guardare da lontano, con la luce solare, e invece passano tante ore a leggere, a guardare da vicino, esposti alla luce artificiale. La miopia è un tipico esempio di patologia a carattere ambientale».
Professore, lei ha studiato il Covid-19. Come siamo messi con le pandemie?
«Attualmente siamo in una situazione di stasi relativa, però il contesto che ha generato la pandemia del 2020 non è cambiato. Persistono gli allevamenti intensivi; la deforestazione; i mercati di animali vivi; i cambiamenti climatici. Tutti fattori di rischio per i salti di specie (spillover), processo nel quale un agente patogeno degli animali evolve e diventa in grado di infettare la specie umana. In Italia l’Istituto superiore di sanità ha predisposto dei piani di prevenzione, ma a livello globale i progressi sono stati limitati, in parte per una certa debolezza delle istituzioni internazionali, come l’Organizzazione mondiale della sanità. Per questo occorre non abbassare la guardia e attuare un’efficace vigilanza per essere pronti ad affrontare future possibili pandemie».