In futuro si brinderà sempre di più con il vino senz’alcol. La curiosità in Italia è crescente e, secondo le proiezioni dell’agenzia americana di ricerca Fact.MR, il mercato mondiale, che oggi vale 2,57 miliardi di dollari, potrebbe quasi triplicare nei prossimi dieci anni.
La rivoluzione del calice passa per la denominazione appena autorizzata: vino dealcolato. Prima la legislazione nazionale concedeva il termine “vino” solo alle bevande con un tenore alcolico minimo di 8,5-9 gradi. Il decreto ministeriale che recepisce la normativa europea stabilisce che:
• i vini dealcolati abbiano un contenuto alcolico inferiore allo 0,5% del volume;
• quelli parzialmente dealcolati una gradazione tra 0,5% e 8,5% del volume.
Ci sono almeno 11 domande che vengono in mente a questo punto ai consumatori.
1. Il dealcolato non fa male alla salute?
2. Può essere bevuto dagli astemi per scelta o per necessità, come le donne incinte o chi ha problemi al pancreas?
3. Si può far bere ai bambini?
4. Non si rischiano le multe guidando l’auto dopo averlo bevuto?
5. È meno calorico?
6. Sono preservate le sostanze dalle proprietà antiossidanti caratteristiche dell’uva?
7. Mantiene il sapore ricco e complesso del vino tradizionale?
8. Avremo dei dealcolati Doc o bio?
9. Questi vini si trovano in Italia?
10. Il processo di dealcolazione è nocivo?
11. Come conservare le bottiglie?
Ed ecco le risposte in questa ampia inchiesta, realizzata con l’aiuto di un ventaglio di esperti che spaziano dai nutrizionisti ai produttori e agli enologi.

I vantaggi solo se l’etanolo è del tutto azzerato
Partiamo da un punto fermo. L’alcol, o etanolo, è una sostanza tossica per il nostro organismo. Già dal 1988 l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro lo ha classificato come agente cancerogeno di gruppo 1 e oggi sappiamo che aumenta il rischio di sviluppare tumori in ben otto sedi (bocca, faringe, laringe, esofago, fegato, colon-retto, seno e stomaco).
Prima si riteneva che potesse non essere pericoloso bere un bicchiere di vino al giorno per le donne e due per gli uomini. «Ma non è così», dice netta la nutrizionista Lucilla Titta, responsabile del team Smartfood allo Ieo, l’Istituto europeo di oncologia di Milano. «Gli studi più recenti e accreditati hanno dimostrato che non esiste una soglia di assunzione di bevande alcoliche che sia priva di rischio per la salute». Ecco perché il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro sostiene che «per la prevenzione delle neoplasie non si devono assumere bevande alcoliche».
Aggiunge Titta: «Un consumo elevato, poi, è associato a più di 200 malattie tra cui: cirrosi epatica, patologie cardiovascolari, diabete di tipo 2, demenza precoce». E il motto secondo cui «il vino rosso fa buon sangue»? «Falso», risponde. «La credenza errata, anche se ancora diffusa perfino in ambiente medico, ha origine da vecchi studi osservazionali, da cui sembrava emergere che un moderato consumo di rosso, grazie alla presenza del polifenolo resveratrolo, potesse avere un effetto protettivo per la salute cardiovascolare. Non è così: il problema è l’alcol e in questo senso non c’è differenza con il bianco e lo champagne».
È pur vero che il vino fa parte della nostra cultura, della nostra socialità e che nella vita rischiamo tutti i giorni. Gli scienziati devono essere onesti nel dare le indicazioni, in base ai risultati delle ricerche, e sta a noi decidere quale livello di rischio correre. Non possiamo chiedere il via libera oggettivo a un nutrizionista per il bicchiere nel weekend, possiamo solo chiederlo a noi stessi.

Il vino dealcolato è una bella invenzione, in questo senso.
«Alla luce di quello che sappiamo, per non essere minimamente nocivo deve avere un contenuto di alcol nullo», riflette Titta. «Quindi non basta che il dealcolato abbia un contenuto genericamente inferiore allo 0,5% in volume, come previsto dal regolamento. È importante cercare etichette che indichino “0,0%” o “senza alcol”. Sono questi i prodotti che possono fare la differenza».

Via libera per tutti, non per i bambini
A quel punto, se non c’è traccia di alcol, possono davvero alzare i calici anche gli astemi, le donne in gravidanza, chi assume farmaci che possono interagire negativamente con l’etanolo, i pazienti con malattie epatiche o condizioni mediche specifiche (come pancreatite e alcune cardiopatie) e le persone di credi religiosi (come l’Islam) che vietano il consumo di alcolici.
«A differenza delle bevande alcoliche tradizionali, il cui consumo viene da sempre consigliato a stomaco pieno perché il cibo rallenta l’assorbimento dell’etanolo», dice Titta, «il vino senz’alcol può essere gustato anche come aperitivo senza stuzzichini».
Meglio evitare di offrirlo, invece, a bambini e pre-adolescenti: nonostante l’assenza di alcol, l’abitudine di consumare bevande simili agli alcolici potrebbe influenzare i loro comportamenti futuri.

Quando è garantita la sicurezza alla guida
Il vino totalmente senz’alcol è una soluzione per chi vuole passare una serata in compagnia brindando e poi deve mettersi al volante. È sempre meglio non bere alcol quando si guida e ora, per di più, s’incorre nelle sanzioni del nuovo Codice della strada.
Per esempio, una donna che beve un bicchiere e mezzo di vino tradizionale può avvicinarsi o superare il limite legale di 0,5 grammi di alcol per litro di sangue, soprattutto se ha un peso inferiore a 60-65 chili e sorseggia a stomaco vuoto. Stessa cosa può capitare a un uomo con un paio di calici. Per quel tasso alcolemico è prevista una multa e la sospensione della patente da tre a sei mesi.

Meno calorie dei vini tradizionali
L’altra buona notizia è che le calorie nei prodotti dealcolati subiscono una netta sforbiciata. «L’apporto energetico del vino proviene soprattutto dall’alcol, che apporta circa 7 calorie per grammo», precisa Titta. «Tra l’altro quelle dell’alcol sono definibili calorie vuote, nel senso che non apportano alcun tipo di sostanza nutritiva, a differenza di carboidrati e proteine, che forniscono mediamente 4 calorie per grammo».
Quando ingeriamo alcol, il nostro corpo lo tratta come una sostanza da smaltire rapidamente, perché è tossico. A differenza dei macronutrienti (carboidrati, grassi e proteine), non può essere immagazzinato direttamente come fonte di energia di riserva ed entra subito nel ciclo di produzione energetica. Se si beve più alcol di quello che il corpo può usare subito, il fegato converte un suo derivato in grassi. Ed è il motivo per cui un consumo eccessivo e regolare di alcol è associato a steatosi epatica (o fegato grasso) e aumento del grasso addominale.
«Con un bicchiere (da 125 millilitri) di vino, si buttano giù dalle 90 alle 130 calorie, come aver mangiato quattro o più zollette di zucchero», dice Titta. «Un bicchiere di dealcolato, che contiene una quota di zuccheri da uva, può avere di base una ventina di calorie, che diventano 50 se viene addizionato del mosto per renderlo più piacevole al palato».

Restano i polifenoli come il resveratrolo
Il vino privato dell’etanolo conserva una buona quantità di polifenoli, composti chimici presenti nell’uva (in particolare il resveratrolo in quella rossa e nera), noti per le loro proprietà antiossidanti. «I produttori stanno cercando di minimizzare la perdita dei fitocomposti e delle sostanze aromatiche del vino che avviene con la dealcolazione, a volte reimmettendoli a fine processo», specifica Titta. «Questo non sarebbe un problema, anzi».

In qualche modo, si stanno seguendo le orme della birra. Mentre i primi esperimenti senza alcol erano poco gradevoli al palato, oggi il mercato delle birre analcoliche è in costante crescita.

Gli studi per preservare i bouquet tradizionali
«In effetti, è proprio l’alcol a conferire corpo e struttura al vino, interagendo con polifenoli, acidi organici e altri componenti non volatili», interviene Donatella Albanese, docente ordinaria di Scienze e Tecnologie alimentari presso il dipartimento di Ingegneria industriale dell’Università di Salerno. «Con la dealcolazione, c’è il rischio che il vino assuma una maggiore durezza al palato. Non è un caso se più simili ai prodotti tradizionali sono i dealcolati spumantizzati, quelli con le bollicine, perché l’anidride carbonica sopperisce alla mancanza di alcol e armonizza il profilo sensoriale».
I produttori potrebbero ricorrere a un aiutino chimico? «La normativa italiana vieta l’aggiunta sia di zucchero al mosto, il succo d’uva prima della fermentazione, sia di acqua, composti aromatici e additivi che non fanno parte del processo naturale di vinificazione», precisa Albanese. «L’obiettivo è preservare l’integrità del prodotto e garantire che sia un vero vino, anche se privo di alcol».
Potenzialmente si può ottenere un buon vino dealcolato da tutti i vitigni, anche se i risultati migliori si ottengono con quelli dai profili aromatici più intensi e complessi, come Moscato, Gewürztraminer, Riesling e Sauvignon. «Per quanto sia affinata la tecnica, la dealcolazione depaupera almeno in parte il vino dei suoi aromi naturali, quindi le uve più profumate consentono di ottenere comunque un prodotto soddisfacente dal punto di vista olfattivo e gustativo», riprende Albanese.

Niente denominazione di origine controllata
La legge italiana stabilisce che i vini dealcolati non possano essere classificati come Doc (Denominazione di origine controllata) o Docg (Denominazione di origine controllata e garantita), perché queste due categorie devono rispettare un preciso disciplinare, cioè specifici requisiti di produzione e composizione, tra cui anche un determinato livello di alcol.
«In una sorta di limbo si trovano le bottiglie di biologico», continua Albanese. «Al momento non è possibile realizzare un prodotto dealcolato bio, perché la dealcolazione non è ancora stata riconosciuta come pratica ammessa nel disciplinare. Pur trattandosi di un processo fisico, che non implica l’uso di sostanze chimiche, è comunque necessario un intervento della Commissione europea per stabilire se la dealcolazione è conforme agli standard biologici».

Le cantine pioniere nel nostro Paese
Ma si trova vino italiano dealcolato? Per lo meno all’inizio, è presumibile che la produzione resterà appannaggio delle grandi cantine industriali. I piccoli produttori potrebbero non avere la capacità economica necessaria per sostenere i costi elevati delle tecnologie richieste per entrare in questo mercato.
Prima del decreto ministeriale, alcuni pionieri avevano già introdotto da noi dei prodotti senz’alcol o a basso contenuto alcolico nella loro gamma, ma erano obbligati dalla legge a definirli “bevande” e non “vini”.
Tra le aziende che storicamente hanno scelto questa strada c’è la piemontese Bosca. La cantina di Canelli (Asti), ha lanciato nei primi anni Novanta bollicine no alcol, che negli Usa, Paesi Baltici, Danimarca, Israele, Cina e alcuni Stati africani hanno trovato i principali mercati. «Il nostro bianco e rosso frizzantino, il Toselli, non contiene alcol all’origine, perché il metodo consiste nel bloccare la fermentazione del mosto», spiega Pia Bosca, amministratrice delegata dell’azienda. «Durante il processo produttivo l’alcol non si crea e, di conseguenza, non va rimosso. Questo preserva le qualità organolettiche della materia prima nel prodotto finale, mentre la dealcolazione non è semplice da gestire. Ma cominceremo a sperimentare il vino dealcolato, contando di arrivare in commercio nei prossimi mesi con le prime bottiglie».

Le tre tecniche di dealcolazione
Qual è la difficoltà della dealcolazione? «Sta nello stress al quale si sottopone il vino», dice Bosca. «I macchinari costosi e complessi mettono in atto procedimenti che puntano a preservare sapori e profumi. Da una parte bisogna affinare la tecnologia, dall’altra scegliere le uve più adatte al procedimento». In ogni caso, nulla di nocivo.
Il processo di dealcolazione più semplice si basa sul principio che l’alcol, in condizioni di bassa pressione, evapora a temperature inferiori rispetto all’acqua e ai composti aromatici del vino, per cui è possibile rimuoverlo senza arrivare all’ebollizione.
«Questa tecnica è la più utilizzata e meno costosa», dice l’enologo Sabino Genovese, consulente scientifico del Museo dell’Arte, del vino e della vite alla Reggia di Portici (Napoli). «Il vino è messo in un macchinario dove la pressione è ridotta, creando un ambiente sottovuoto. La riduzione della pressione consente di far evaporare l’alcol a temperature inferiori rispetto a quelle normali, che sarebbero intorno ai 78 °C, mentre qui si abbassano a 30 °C. Non riscaldandosi troppo, il vino “perde” la sua componente alcolica, ma riesce a mantenere gran parte di aromi e profumi».
Negli anni Ottanta si è aggiunta la tecnica dell’osmosi inversa. «In questo caso, il vino è spinto ad alta pressione attraverso una membrana semipermeabile che consente solo il passaggio di piccole molecole, come acqua e alcol, mentre blocca quelle più grandi, come i composti aromatici e i polifenoli», continua Genovese. «È un po’ come un filtro che trattiene solo ciò che vogliamo. Dopo, l’alcol viene separato per distillazione dall’acqua di vegetazione, che viene poi reintegrata agli altri componenti desiderati del vino».

Dal 1991 è disponibile anche una terza tecnica, la colonna a coni rotanti, dove il vino viene centrifugato in una colonna sottovuoto riscaldata a circa 30 °C in cui è presente una serie di coni fissi e altri rotanti che si alternano fra loro. Man mano che cade verso il basso, il vino si distribuisce in strati sottili sotto l’effetto della forza di gravità e di quella centrifuga: in questo modo, aumenta la superficie evaporativa per i composti volatili come l’alcol. La particolarità sta nel fatto che, durante i primi passaggi, i composti aromatici vengono “catturati” e poi reimmessi alla fine. «È la tecnologia più avanzata e meno diffusa, perché molto costosa, ma pare sia quella maggiormente in grado di mantenere la struttura originaria del vino», dice Genovese.

La conservazione? Al fresco e al buio
Rimane il cruccio della conservazione. L’assenza di alcol espone il vino a un maggiore rischio di contaminazione microbica, rendendolo più suscettibile a ossidazione e deterioramento. «Se conservato correttamente in un luogo fresco, buio e con una temperatura costante, può durare da sei mesi a un anno, a seconda della qualità del prodotto e delle tecniche di produzione utilizzate», precisa l’enologo. «La tendenza dei produttori non è quella di aggiungere i solfiti, come nel vino tradizionale (e non nel biologico), ma di puntare su processi termici di pastorizzazione per uccidere o inattivare batteri patogeni, lieviti e muffe, responsabili della successiva alterazione».
La storia del vino dealcolato in Italia è ancora da scrivere, ma è una storia interessante e un esempio di come si possano mantenere le tradizioni pensando alla salute.

Che cosa dice il Codice della strada
Il nuovo Codice della strada, in vigore dal 14 dicembre 2024, ha introdotto misure più severe per chi guida dopo aver consumato alcol. Le sanzioni variano in base al tasso alcolemico rilevato.
• Tra 0,5 e 0,8 g/L: multa fino a 2.170 euro e sospensione della patente da 3 a 6 mesi.
• Tra 0,8 e 1,5 g/L: ammenda fino a 3.200 euro, arresto fino a 6 mesi e sospensione della patente fino a un anno.
• Oltre 1,5 g/L: multa fino a 6.000 euro, arresto fino a un anno e sospensione della patente fino a 2 anni.
In tutti i casi, vengono sottratti 10 punti dalla patente.
Per chi è stato già sanzionato con un tasso alcolemico oltre 0,8 g/L, è obbligatoria l’installazione del dispositivo “alcolock”, che impedisce l’accensione del motore dell’auto se viene rilevata la presenza di alcol. L’obbligo dura 2 o 3 anni a seconda della gravità dell’infrazione.
I neopatentati, che hanno la patente da meno di tre anni, devono mantenere un tasso alcolemico pari a zero: valori superiori comportano sanzioni e la perdita di punti sulla patente.