PHOTO
Lavorare stanca, come scriveva Cesare Pavese? Dipende. Dal tipo di lavoro che si fa (certamente ce ne sono di più o meno usuranti e in questo senso va sempre celebrata la festa dei diritti dei lavoratori, il primo maggio), ma anche da come lo si fa. Cioè da quanto il mestiere che abbiamo scelto realizzi almeno in parte le nostre inclinazioni naturali e serva a portare a casa, oltre che uno stipendio, anche un pezzettino di felicità.
Sì, sono due le novità in quest’affermazione: la prima è che il nostro obiettivo primario è la felicità, la seconda è che anche il lavoro gioca una sua (buona) parte nella capitalizzazione di quote di gioia da investire ora per il nostro futuro. Eppure, stando agli ultimi dati pubblicati dall’Osservatorio BenEssere Felicità, alla sua quarta analisi sullo stato di soddisfazione dei lavoratori in Italia, il 45% delle persone intervistate non sarebbe contento della propria professione e vorrebbe cambiarla.
D’altra parte lavoriamo non solo per la necessità di badare alla nostra sussistenza, ma anche per il piacere di fare. «Il lavoro è la nostra parte di evoluzione, per noi stessi, per i nostri figli, per la specie», come scrive lo psicoterapeuta Giorgio Piccinino, docente di counseling del Centro Berne di Milano (scuola di specializzazione per psicologi e medici riconosciuta dal ministero dell’Università), nel suo libro Il piacere di lavorare (Erickson).
Ecco otto suggerimenti, ispirati alle tecniche dei professionisti di counseling, per capire come trarre il meglio dalle nostre attività, ricordando che il nostro primo e più appassionante lavoro è la costruzione di noi stessi.
1. Non smettiamo mai di chiederci: cosa mi piacerebbe fare?
All’interno del proprio posto di lavoro o magari in un altro settore, in un secondo o terzo tempo. Teniamo vivo il contatto con le nostre emozioni e desideri, “ripassiamoli” di tanto in tanto, perché il primo segreto della felicità è avvicinarci il più possibile a realizzare ciò che siamo. Non è possibile ora? Sogniamo! È anche lì che la realtà inizia a prendere forma.
2. Puntiamo sulle nostre risorse
Ci hanno insegnato che «chi si loda, si imbroda» e così siamo soliti mettere in secondo piano i nostri pregi e sottolineare invece le fragilità, come se il bambino che è in noi dovesse sempre giustificare il suo operato a un genitore giudicante, pronto a castigarlo se sbaglia o se non corrisponde alle aspettative. Perché invece accanto a mancanze e lacune, non iniziamo a elencare, magari proprio scrivendole su un foglio, anche le nostre competenze? Siamo socievoli, generosi, ci si può fidare di noi? Tutte ottime qualità da trovare in un collega, tanto che i nostri potranno ritenersi fortunati. Oppure siamo proattivi, lungimiranti, creativi e ingegnosi? Saremo altrettanto ricercati. Riconosciamo ciò che sappiamo fare. E lo faremo meglio, cioè rimanendone più soddisfatti.
3. Facciamo progetti personali
Avere un proprio progetto per il futuro aiuta anche nelle situazioni più alienanti: è importantissimo mantenersi vivi, attivi, pensare alla possibilità del cambiamento. Spesso siamo noi stessi a sabotare le nostre idee, scoraggiati dall’assenza di riconoscimenti e dalla scarsa fiducia in noi stessi: diamoci invece il permesso di riuscire, autorizziamoci a fare delle prove, a seguire il filo dei nostri pensieri, ricordandoci che “riuscire” ha in sé anche il permesso di sbagliare. E riprovarci.
4. Consideriamoci degli adulti
Sembra ovvio: siamo grandi e lavoriamo da tempo, chiaro che siamo adulti. E invece non sempre è così. Per esempio: ci sentiamo indispettiti dall’atteggiamento del collega e ingaggiamo con lui una lotta più o meno consapevole, oppure ci arroghiamo il diritto di spiegare sempre a tutti cosa fare, oppure, ancora, facciamo comunella coi nostri vicini di scrivania contro il capo che non ci piace. Sarebbero questi comportamenti adulti o piuttosto una replica di modelli infantili? Fermiamoci a riflettere e scopriamo che esistono altre vie per raggiungere i nostri scopi. E spesso sono molto meno faticose e più efficaci per noi: in riferimento agli esempi sopra, spieghiamo con garbo al collega cosa ci dà fastidio di lui, smettiamola di fare i maestrini rendendoci antipatici a tutti, chiediamo al capo una riunione collettiva di confronto per evitare di continuare a consumare tante energie inutili.
5. Smontiamo i pregiudizi
«Chi fa da sé fa per tre», «non ti fidare di chi non conosci» eccetera. Ma chi l’ha detto? Proviamo a rispondere davvero a questa domanda: l’hanno detto i nostri genitori, i nonni, i professori a scuola. Di fatto succede che ci portiamo dentro alcuni “insegnamenti” per la vita. Ma siamo proprio sicuri che siano attendibili? Riflettiamo sui limiti all’interno dei quali ci costringiamo a stare e, a piccoli passi, proviamo ad affacciarci a nuove finestre: magari il mondo fuori è diverso da come ce l’hanno raccontato.
6. Affrontiamo il problema come una palla
Se un aspetto del lavoro ci affligge, ci invade e ci confonde, prima di disperare proviamo a vedere di cosa si tratta, come fosse un oggetto, per esempio una palla da mettere idealmente sulla scrivania proprio sotto i nostri occhi. Com’è fatto questo problema, che caratteristiche ha, come posso farlo rotolare via? Sorpresa: abbiamo già iniziato a farlo quando, visualizzandolo sul tavolo, abbiamo realizzato che è altro da noi.
7. Rilanciamo
L’ambiente di lavoro ci va stretto, ci sentiamo sottoutilizzati, incompresi? E allora investiamoci ancora di più. Sembra una battuta, ma non lo è se s’intende la possibilità di trovare un’area in cui realizzare almeno uno dei nostri interessi: per esempio, frequentando un corso di specializzazione o di aggiornamento, o mettendo a disposizione le nostre competenze per altre mansioni. Proviamo a cercare in noi qualcosa che ci emozionerebbe fare e diamogli il diritto di esistere.
8. Cambiare è possibile
Soddisfare almeno in parte i propri bisogni primari, trovare piacere, gioia e dunque anche la parte di felicità inerente al proprio lavoro è quindi un nostro obbiettivo primario, per star meglio con noi stessi e con gli altri. Proviamo a migliorare l’ambiente in cui ci muoviamo e se capiamo che ci va davvero stretto, troviamo il coraggio per cambiarlo, come un vecchio abito. Perché l’unica cosa che ha davvero valore è la persona che c’è dentro. •