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Foto di Giulio Piscitelli.
Pizza ai funghi dei monti Picentini, polenta con crema di tartufo irpino, gnocchi di ricotta di Bagnoli. E ancora viaggi virtuali tra paesaggi, chiese e monumenti storici. I piatti tipici e le bellezze della provincia di Avellino diventano parte integrante della cura al Polo specialistico riabilitativo della Fondazione Don Carlo Gnocchi a Sant’Angelo dei Lombardi, un centro dove ogni anno oltre mille pazienti vengono ricoverati dopo un intervento al cuore, per una disabilità dovuta a un problema respiratorio o neurologico.
L’idea è nata dal responsabile della struttura, Biagio Campana, e dalla sua équipe riabilitativa, sempre pronta a proporre nuovi progetti innovativi, che nella realtà spesso marginalizzata dell’entroterra campano ha saputo vedere non un limite ma un’occasione per elaborare protocolli terapeutici da esportare in altre regioni.
Dottor Campana, lei ha provato a portare un po’ del territorio irpino in corsia. Com’è nata l’idea?
«Siamo partiti dalla tavola con il progetto Disfarmirpinia, con cui abbiamo rivisitato le ricette della tradizione locale per adattarle ai pazienti che hanno difficoltà a deglutire (disfagia) a causa di malattie neurologiche, degenerative, traumi o tumori. Queste persone, non potendo consumare gli alimenti normali che mangiamo tutti, spesso vanno incontro a depressione e malnutrizione. Per aiutarli abbiamo quindi realizzato una guida pratica che, oltre a dare indicazioni e consigli per gestire il problema, offre anche un ricettario dalla forte impronta locale per consentire ai pazienti di riscoprire i sapori della loro terra».
In che modo la cucina locale può diventare terapeutica?
«L’alimentazione non è solo nutrimento per il corpo, ma è anche fortemente connessa alla dimensione sociale, emotiva e psicologica. Poter gustare i piatti tipici della tradizione rafforza il senso di identità e soddisfa il bisogno di appartenenza a una comunità. Le caratteristiche di un piatto familiare come il suo aspetto, i profumi, i sapori, riattivano ricordi piacevoli legati agli affetti più cari. Tutto ciò è fonte di benessere sia per il corpo che per la mente».
Il ricettario, scaricabile gratuitamente dal sito della Fondazione Don Gnocchi, è già diventato un modello che potrà essere replicato anche in altri centri, attingendo ai piatti delle varie cucine locali. Ma i pazienti cosa ne pensano?
«Abbiamo proposto le ricette ad alcuni degenti selezionati, e spesso le consigliamo anche dopo le dimissioni per aiutare i pazienti e i loro familiari una volta tornati a casa. Finora abbiamo ricevuto commenti molto positivi, come quello di una nonnina che ci ha detto di non aver mai mangiato una ciambotta, il tipico stufato di verdure estive, così buona».


Campana (qui sopra con un collaboratore) è anche volontario del soccorso e formatore per la Croce Rossa Italiana. Foto di Giulio Piscitelli.
Non di solo pane vive l’uomo, e anche per questo avete allargato il vostro esperimento all’arte e alla cultura con il progetto Stimolirpinia: di che si tratta?
«È un’iniziativa innovativa di riabilitazione in fase di sviluppo per pazienti con deficit cognitivi, che sfrutta la bellezza e la cultura irpine per stimolare e migliorare competenze fondamentali come l’orientamento spazio-temporale, la memoria e l’attenzione. Nella pratica, abbiamo pensato di offrire ai pazienti un viaggio virtuale attraverso i Comuni della Regione, arricchito da immagini e narrazioni storiche. L’attività non solo mira a potenziare le funzioni cognitive residue, offre anche un’opportunità di intrattenimento e socializzazione, rendendo la riabilitazione più coinvolgente».
L’arte locale può dunque diventare una cura?
«Le prime esperienze che abbiamo fatto con i nostri pazienti fanno ben sperare: l’impressione è che questo genere di attività produca risultati paragonabili a quelli di terapie cognitive standard come i giochi con le carte. Per dire che può diventare una vera terapia, però, servirà una sperimentazione più ampia. Per questo stiamo già avviando un progetto pilota che ci permetterà di raccogliere dati scientificamente validati».
Quasi vent’anni fa lei ha lasciato Napoli per venire a lavorare a Sant’Angelo dei Lombardi: com’è stato il primo impatto con questa realtà locale?
«Il trasferimento in un piccolo Comune dell’entroterra ha comportato un forte cambiamento: ovviamente sentivo la mancanza del mare e di tutti quei servizi che ero abituato ad avere a portata di mano quando vivevo in città, ma anche dal punto di vista professionale non era più la stessa cosa: quello che mi mancava era soprattutto la possibilità di confrontarmi quotidianamente con un ampio numero di colleghi del mio settore così come quando lavoravo nei grandi centri partenopei, per esempio all’ospedale Monaldi».
Di fronte a queste difficoltà le è mai capitato di sentirsi un po’ scoraggiato?
«Ammetto che all’inizio ero arrivato con l’idea di restare qui solo per pochi mesi, ma poi ho conosciuto mia moglie e pian piano mi sono innamorato anche del territorio, arrivando a sposare la causa dei suoi abitanti. Così ho deciso di rimanere e mettere su famiglia, continuando il mio percorso professionale qua per dimostrare che anche in queste piccole realtà si può fare molto».