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All’inizio del 2024 l’Italia si è accorta che il suo medico più famoso sta a Padova. Non è noto perché va in televisione, ma perché è il ricercatore più citato negli studi accademici. Maurizio Corbetta si stupisce dell’onda di attenzione improvvisa che lo ha investito da quando si è diffusa la classifica Clarivate 2023. Arriva in camice bianco e mascherina dall’ospedale, dove dirige la clinica neurologica. Il fotografo Adolfo Franzò, mentre lo ritrae per BenEssere, gli dice che ricorda Luca Argentero nella fiction Rai Doc, ma lui si scusa: «Non so chi sia, ho vissuto per 28 anni negli Stati Uniti».
È rientrato nel 2016, non guarda molto la tv e non è su Instagram o Facebook. Dedica le sue giornate alla cura dei pazienti e a sondare i misteri del cervello, nel Neuroscience Center che ha fondato al Vimm (sigla per Veneto Institute of Molecular Medicine). Mi incuriosisce sapere qual è il punto di vista di un neuroscienziato sull’intelligenza artificiale, esplorare i vantaggi e i pericoli della nostra convivenza con “l’altra specie”, come qualcuno l’ha definita. Ne parliamo.
Professore, Elon Musk ha annunciato di aver messo a punto con la sua società Neurolink un microchip per creare una comunicazione diretta tra cervello e macchine. Lo ha chiamato Telepathy. È una buona notizia o la inquieta?
«Non è una forma di telepathy, telepatia, va precisato. La ricerca di base risale a una ventina d’anni fa e già allora si sapeva che si poteva registrare e tradurre l’attività cerebrale. Alcuni esperimenti mostrano come si riesce a controllare il cursore del computer con le onde cerebrali: se penso “in alto” o “in basso”, il cursore sale o scende, semplicemente perché le mie onde cerebrali codificano “su” e “giù” e il software riceve il segnale e lo decodifica. Così si ottiene un sistema detto Brain computer interface, in cui le onde cerebrali si interfacciano con il computer. Finora la comunicazione è stata unidirezionale, con il cervello che controlla la macchina. Musk invece vorrebbe una comunicazione bidirezionale, cervello-macchina».
Quindi la macchina dotata di intelligenza artificiale potrebbe comunicare direttamente con il nostro cervello.
«Ed è un problema. Musk sostiene che scrivere e parlare sono dei colli di bottiglia della comunicazione. Digitiamo al massimo 200 battute al minuto e pronunciamo tre-quattro parole al secondo, mentre il cervello ha una frequenza di comunicazione molto elevata. Ora, se noi comunichiamo con una macchina ad alte frequenze, anche la macchina può in teoria comunicare con noi. Visto che è molto potente, potrebbe benissimo prendere il controllo di un cervello, del nostro cervello collegato attraverso il microchip».
Sembra fantascienza.
«Viene in mente Hal 9000, il computer di 2001, Odissea nello spazio».
Nel film di Stanley Kubrick e nel racconto di Arthur Clarke a cui si ispira, Hal 9000 è un sistema di intelligenza artificiale che svilupperà autocoscienza. Non resterà che disattivarlo.
«Finché comunichiamo attraverso la tastiera non c’è molto da preoccuparsi, siamo isolati dalla macchina. Certo, già adesso l’intelligenza artificiale sta influenzando il comportamento umano. In questa società dominata da telefonini, computer, informatizzazione, seguiamo pensieri molto seriali, perché i programmi sono stati scritti per fare le cose una alla volta. Impersoniamo il software e per la maggior parte delle ore abbiamo un comportamento innaturale. Noi però abbiamo lo stesso cervello dei nostri antenati di 150mila anni fa, quando si andava nella savana a cacciare o a raccogliere frutta e si dovevano fare tante azioni in parallelo: muoversi, guardarsi dai pericoli, procacciare il cibo».
La società degli algoritmi è una società di parametri mentali, di categorizzazioni: bianco e nero, buono e cattivo. Come possiamo salvaguardare la nostra complessità?
«Intanto mettendo via i cellulari per quattro-cinque ore. Prendere vacanze da smartphone e computer significa avere spazi dove non si è sottoposti al bombardamento delle immagini, per restare un po’ con la nostra parte interiore».
Lei lo fa? Lo consiglia ai suoi figli?
«Sì, cerco di farlo. I dirigenti delle compagnie americane di social network e simili fanno firmare alle babysitter un impegno a non usare cellulari o altri sistemi informatici ai loro figli sotto i 12 anni, perché sanno benissimo che creano dipendenza. Tutte le volte che avviamo uno smartphone, proviamo piacere, gli stimoli visivi scatenano la produzione di qualche gocciolina di dopamina nel nostro cervello. Negli anni Cinquanta un esperimento di laboratorio rivelò che un topo arriva a perdere addirittura l’interesse per il cibo o per l’accoppiamento quando gli viene insegnato a procurarsi piacere premendo un tasto che genera un lieve impulso elettrico nel suo cervello, con secrezione di dopamina».


Maurizio Corbetta nel laboratorio di ricerche presso il Veneto Institute of Molecular Medicine della Fondazione Biomedica di Padova (foto di Adolfo Franzò)
Il telefonino sembra diventato un prolungamento di noi. In uno studio recente è emerso che immaginare di averlo in mano accresce la lunghezza percepita dell’avambraccio.
«È un fenomeno che si chiama embodiment, una specie di incarnazione, di incorporazione nel cervello degli attrezzi che usiamo spesso, si sa da molti esperimenti su scimmie ed esseri umani. Se giriamo senza cellulare, sentiamo che ci manca una parte del corpo. Allo stesso tempo, dovremmo cercare di combattere la dipendenza se vogliamo salvare la nostra capacità di attenzione».
Il suo articolo scientifico più celebre è dedicato proprio all’attenzione. Ho controllato: da quando è apparso, nel 2002, su Nature Reviews Neuroscience, è stato citato 14.200 volte.
«Le citazioni sono come i “like” su Facebook, non sempre sono indici della qualità del lavoro. Detto questo, l’attenzione è una caratteristica preziosa, che perdiamo usando telefonini e computer. Il multitasking, a dispetto di quanto si dice, non funziona. Il nostro comportamento a seconda di quello che facciamo usa circuiti cerebrali diversi: se contemporaneamente voglio scrivere, leggere o vedere internet, è provato che perderò una gran quantità di tempo».
Quando saltiamo da un’occupazione all’altra, si zittisce un circuito e si attiva una nuova strada neurale, come le luci intermittenti di un albero di Natale. È task-switching, cambio di attività, e ci rende lenti e sbadati.
«Dobbiamo concentrarci su un’attività alla volta, altrimenti ci distraiamo».
Ho interrogato ChatGPT, il sistema di intelligenza artificiale che promette di fare una ricerca di storia o risolvere un quesito di fisica, chiedendogli chi fosse “Maurizio Corbetta”. Mi ha risposto che lei è specializzato in reti di default del cervello.
«È vero in parte, ChatGPT ha trovato su internet i lavori a cui sono associato. Comunque sia, la storia delle reti di default è molto bella. Sono entrato nel campo delle neuroimmagini a Saint Louis, negli Stati Uniti, dov’ero studente. Avevano creato un metodo per mappare il cervello. Si è trovato che alcune aree si spegnevano quando si faceva qualcosa e che le stesse aree erano molto attive quando si oziava, col cervello a riposo (default). Alla fine, abbiamo capito che quelle sono le aree deputate al mondo interno: memoria, emozioni, senso di sé. Sembra che il cervello sia organizzato in due assi: uno che ha che fare con l’esterno e uno con il mondo interiore. Questi due assi sono in competizione tra loro e il nostro pensiero si muove come una bilancia. In assenza di un compito preciso da svolgere, l’attività spontanea potrebbe servire a ottimizzare le capacità di apprendimento e le prestazioni future».
Quindi dovremmo restare di più soli con noi stessi?
«Anche se non è facile, si dovrebbero trovare ogni giorno cinque minuti la mattina e cinque la sera per stare fermi a non fare niente, magari respirando, meditando».
Lei medita?
«Cerco di farlo, un po’ di yoga, respirazione, star seduto».
Il nostro cervello è l’oggetto più complesso dell’universo conosciuto. Qual è secondo lei la differenza principale tra come ragioniamo noi e l’intelligenza artificiale?
«È una domanda importante. Le macchine intelligenti sono guidate da relazioni statistiche ricavate da quantità enormi di dati, non sono creative. Replicano quello che gli metti dentro».
Nel saggio Il visconte cibernetico, il rettore della Luiss Andrea Prencipe e il giornalista del Corriere della Sera Massimo Sideri, riflettono sul fatto che la creatività si fonda sul processo contrario a quello dell’intelligenza artificiale. Un sistema genera testi o immagini basati sulle probabilità che due o più concetti siano stati già connessi, mentre la creatività umana punta all’originalità.
«Anche nei nostri cervelli, tutte le volte che raccontiamo una storia si attivano collegamenti concatenati, come avviene per l’intelligenza artificiale. In aggiunta, noi usiamo il corpo per pensare. Seppure inconsciamente, siamo influenzati dai segnali del corpo: per esempio, l’adrenalina quando facciamo attenzione o il cortisolo quando siamo stressati, reagiamo con un diverso battito cardiaco, con il rossore… Noi abbiamo la famosa “pancia” oltre alla testa, mentre la macchina la “pancia” non ce l’ha e questo è ancora un punto di vantaggio degli umani».
In Macchine come me, lo scrittore Ian McEwan immagina una realtà in cui i primi 25 prototipi di umanoidi, sviluppati a nostra immagine e somiglianza, vivono nelle case. Ma l’esperimento di innestare le emozioni in esseri che teoricamente dovrebbero esserne privi si rivelerà un disastro. Ci vorrebbe un’algor-etica?
«È difficile insegnare a una macchina a essere etica, perché le macchine vengono allenate a riprodurre quello che c’è. Il punto è che non dobbiamo fare per forza tutto quello che la tecnologia ci consente. Vent’anni fa col genoma si manifestò la possibilità di clonare le persone, poi però in Occidente i governi la vietarono. L’intelligenza artificiale di fatto ora è nelle mani forse di una decina di persone e questo non va bene. Sacerdoti, filosofi o imam e tutti noi dobbiamo trovare risposte comuni e regolamentarla. Pensiamo ai droni. Ce ne sono già alcuni che calcolano le percentuali di vittime dopo un attacco, ma chi schiaccia un pulsante e non vede gli effetti del missile che lancia è privato dell’emozione, del dubbio. Nel passato quando si combatteva a mani nude o corpo a corpo l’effetto della violenza era più trasparente. Oggi c’è un pericolo per la pace e per come si fa la guerra».
Anche Papa Francesco esorta, leggo testualmente, ad «adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale». Bisogna regolamentare, non demonizzare. In medicina, per esempio, i microchip possono essere una svolta.
«Esatto, ci sono applicazioni per trattare pazienti paralizzati dal collo in giù con lesioni del midollo spinale. A San Francisco è stato condotto un esperimento su una persona afasica: il chip che le è stato impiantato fa sì che la macchina analizzi i suoi pensieri e li invii al suo avatar, un gemello digitale che sullo schermo parla per lei».
Un suo paziente tetraplegico è stato Cristopher Reeve, l’attore che ha interpretato Superman.
«L’ho incontrato dopo qualche anno dalla sua caduta da cavallo, ho studiato il suo cervello, perché lui si era prestato ad aiutare la ricerca. Allora si sapeva che, in assenza di un arto, le parti cerebrali intatte invadevano l’area non più attiva. Abbiamo scoperto che Reeve, a cui mancava l’uso di tutto il corpo, aveva una corteccia motoria praticamente normale. Questo ci dice che il cervello, se fossimo in grado di ricollegarlo ai nervi sotto la lesione con un microchip, è in grado di comandare il corpo. Infatti, a Losanna (un lavoro uscito su Nature tre mesi fa) hanno impiantato in un paziente con lesione midollare un elettrodo che registra l’attività dall’area motoria e, attraverso un collegamento bluetooth, i segnali vengono inviati a uno stimolatore al di sotto della lesione per attivare il midollo spinale e i muscoli ancora intatti. Quando il paziente vuole camminare, il suo pensiero attiva lo stimolatore spinale e, con un appropriato training riabilitativo, questo paziente è stato in grado di camminare dopo molti anni di paralisi completa».
Una volta si pensava di poter ricostruire le fibre nervose, ora si bypassa questo processo?
«Si tentano entrambe le strade. Qui al Vimm, la squadra di Nicola Elvassore sta producendo i cosiddetti organoidi, che sono dei mini-cervelli. Ricava da un prelievo di sangue cellule staminali, cioè progenitrici, istruendole a diventare cellule nervose e così ricreando un pezzettino di tessuto cerebrale. In uno dei progetti europei che hanno vinto, la giovane ricercatrice Cecilia Laterza sta cercando di usare gli organoidi per ricostruire il circuito cerebrale danneggiato da un’ischemia o da un trauma».
Si stima che nel 2050 il numero di persone con Alzheimer sarà triplicato. In futuro si potrebbe ipotizzare di trasferire l’intelligenza di una persona a una macchina prima che si manifesti una forma di demenza? Per sopperire così alla neurodegenerazione?
«Questa è una buona idea, bisognerebbe pensarci. Al momento ci sono studi dove si crea una copia del cervello di una persona (twin brain) che può essere usata per decidere quali sono i metodi di stimolazione non invasiva più adatti per compensare le funzioni cognitive danneggiate».