«Dopo i 50 anni, una donna su due presenta un nodulo tiroideo, spesso senza esserne consapevole», dice Laura Fugazzola, direttrice dell’unità di Endocrinologia dell’ospedale Santi Paolo e Carlo di Milano, docente ordinaria all’Università degli Studi di Milano e presidente della European thyroid association. «Negli uomini, la frequenza è decisamente più bassa, stimata tra il 5% e il 10%». L’incidenza aumenta in generale con l’età, anche se esistono casi – molto più rari – di noduli tiroidei in bambini e giovani.
La buona notizia è che, a differenza di quanto accade in altri organi del corpo, la presenza di un nodulo alla tiroide raramente indica una patologia tumorale. «Nel 95-97% dei casi si tratta di formazioni benigne, prive di implicazioni oncologiche», precisa Fugazzola. «Solo una piccola percentuale, compresa tra il 3% e il 5%, si rivela di natura maligna».

Spesso si scoprono per caso
A parte i noduli di maggiori dimensioni, che possono essere visibili anche a occhio nudo per la posizione superficiale della tiroide (situata al centro del collo, subito sotto la cute e i muscoli anteriori), la maggior parte di queste formazioni viene scoperta in modo del tutto casuale.

«Spesso accade durante un ecocolordoppler dei tronchi sovraortici, un’indagine prescritta frequentemente dopo i 50-60 anni per valutare i vasi del collo», spiega Fugazzola. «La tiroide rientra nel campo visivo dell’esame, quindi l’ecografista può notare la presenza di noduli e segnalarli». Anche durante le visite ginecologiche capita spesso che il medico dia un’occhiata alla ghiandola tiroidea, consapevole che è piuttosto comune riscontrare qualche anomalia.
«Un’altra fonte di diagnosi incidentale sono i check-up generali», aggiunge l’esperta. «Nei pacchetti diagnostici proposti da molte strutture sanitarie è spesso inclusa un’ecografia dell’addome, alla quale può essere aggiunta quella tiroidea. È proprio in questi controlli di routine che emergono moltissimi noduli, spesso presenti da decenni senza aver mai causato sintomi evidenti».
Talvolta, invece, i noduli possono iniziare a produrre ormoni tiroidei in autonomia, senza essere più regolati dal Tsh, l’ormone ipofisario che normalmente ne controlla l’attività. «In queste situazioni si parla di noduli tossici o iperfunzionanti», riferisce Fugazzola. «Possono portare a ipertiroidismo, di solito lieve, ma comunque in grado di provocare sintomi come tachicardia, nervosismo o perdita di peso. Sovente è la comparsa di questi disturbi a portare il paziente dal medico, facendo emergere la presenza del nodulo».

Dipende dalle dimensioni
Un’altra situazione in cui i noduli possono diventare sintomatici è quando raggiungono dimensioni molto grandi, superiori ai 4-5 centimetri. «In questi casi possono spostare o comprimere la trachea, causando sintomi come difficoltà respiratorie o sensazione di fastidio alla gola», ammette l’esperta. «Non tutti i noduli crescono così tanto, però. Di solito, rimangono piccoli e stabili».
Il primo step di valutazione è l’ecografia tiroidea, un esame non invasivo che permette di discriminare tra noduli sospetti e non sospetti. Solo quelli che presentano caratteristiche anomale vengono selezionati per lo step successivo, l’agoaspirato, che si esegue inserendo un ago molto sottile – come quello usato nei prelievi ematici – direttamente nel nodulo, sotto guida ecografica, per prelevarne alcune cellule da analizzare al microscopio. L’intervento è rapido (dura meno di un minuto), non richiede anestesia e il dolore è paragonabile a quello di un esame del sangue. «L’aspetto che può suscitare apprensione nel paziente è la sede del prelievo, cioè il collo, ma nella pratica clinica si tratta di un’indagine semplice, sicura e ben tollerata», assicura Fugazzola.

L’origine è poco chiara
Le cause dei noduli tiroidei non sono ancora del tutto note, ma è evidente che alla base vi siano diversi fattori predisponenti. Uno dei più rilevanti è la familiarità: alcune persone presentano una predisposizione genetica allo sviluppo di queste formazioni, tanto che si osservano intere famiglie con più casi di gozzo nodulare, un ingrossamento della tiroide caratterizzato dalla presenza di uno o più noduli. «Questa componente ereditaria suggerisce che alcune caratteristiche anatomiche o metaboliche della tiroide possano essere trasmesse geneticamente, aumentando la probabilità che si verifichino alterazioni strutturali», spiega Fugazzola.
Oltre alla genetica, esistono anche fattori ambientali che possono giocare un ruolo importante. Il più noto e scientificamente documentato è la carenza di iodio. «Questo elemento rappresenta il “mattone” fondamentale per la sintesi degli ormoni tiroidei», sottolinea l’esperta. «Se l’apporto è insufficiente, la ghiandola è costretta a intensificare la propria attività per mantenere i livelli ormonali adeguati. Nel tempo, questo sovraccarico funzionale può favorire la formazione di noduli, soprattutto nei soggetti con predisposizione familiare».
Si ritiene che la maggiore incidenza tra le donne sia dovuta proprio a questo meccanismo: gli estrogeni femminili, infatti, aumentano l’escrezione urinaria di iodio, provocando una lieve carenza che rende la tiroide più vulnerabile. «La crescita dei noduli è molto lenta ed è per questo che tendono a manifestarsi clinicamente solo dopo i 50 anni, anche se la loro comparsa risale a molti anni prima», precisa Fugazzola.
Diverso è il caso dei tumori maligni della tiroide, causati da mutazioni genetiche identificabili tramite appositi test. Nella maggior parte dei casi non si tratta di forme ereditarie, ma ne esiste un sottotipo – il carcinoma midollare – che può trasmettersi all’interno della stessa famiglia. «Considerata la sua aggressività», spiega Fugazzola, «in questi contesti si procede alla ricerca della mutazione genetica nei parenti stretti e, se confermata, si interviene con una misura preventiva: la tiroidectomia profilattica, ovvero la rimozione della tiroide nei bambini che risultano portatori della mutazione».

A volte basta sorvegliare
Una volta diagnosticati, che si fa? Per i noduli benigni di piccole dimensioni, che non causano sintomi né mostrano tendenza a crescere, l’approccio più comune è la sorveglianza attiva, con controlli ecografici periodici (in genere annuali) per monitorarne l’evoluzione. In assenza di variazioni significative, non si interviene in alcun modo.
«Quando invece i noduli diventano più voluminosi e causano fastidio, senso di compressione o problemi estetici, si può prendere in considerazione un trattamento attivo», racconta l’esperta. «Oggi esistono terapie mininvasive, come la termoablazione, che prevede l’inserimento di un ago all’interno del nodulo attraverso il quale viene emesso calore per provocare una necrosi coagulativa del tessuto, cioè la sua distruzione controllata». In pratica, il nodulo viene “bruciato”, riducendone il volume anche del 60-70%. Pur non scomparendo del tutto, diventa più tollerabile e spesso non richiede alcun intervento chirurgico.
Un’altra opzione terapeutica mininvasiva è riservata ai noduli cistici, quelli pieni di liquido. In questi casi si ricorre all’alcolizzazione, una tecnica che consiste nell’aspirare il contenuto della cisti e sostituirlo con etanolo sterile. L’alcol provoca un’irritazione delle pareti interne, inducendole ad aderire tra loro e portando, nel tempo, alla risoluzione del nodulo. Si tratta di una procedura rapida, efficace e svolta in regime ambulatoriale, quindi senza necessità di ricovero.

Opzioni sicure
«Nei noduli iperfunzionanti, cioè quelli che producono ormoni tiroidei in modo autonomo, la terapia di prima scelta è il trattamento radiometabolico con iodio radioattivo», riprende Fugazzola. «Consiste nella somministrazione orale di una singola compressa contenente iodio radioattivo, da assumere in ospedale. Una volta ingerito, l’isotopo viene assorbito selettivamente dal nodulo iperattivo, permettendo un’azione mirata che non coinvolge il resto della tiroide né altri organi». L’effetto del trattamento porta a una progressiva riduzione del volume nodulare – fino al 50% – e alla normalizzazione della funzione tiroidea, con la risoluzione dell’ipertiroidismo generalmente entro un mese.
Se tutte queste opzioni non sono praticabili oppure in presenza di noduli maligni, si ricorre alla chirurgia, che può prevedere l’asportazione di metà tiroide (lobectomia) o dell’intera ghiandola (tiroidectomia totale), a seconda della distribuzione delle lesioni.

Ci sono farmaci efficaci
Nel caso di noduli tiroidei maligni, la gestione è più complessa, ma molto dipende dalle caratteristiche specifiche del tumore. Alcuni carcinomi papillari di piccole dimensioni (inferiori a un centimetro), privi di segni di aggressività o di coinvolgimento linfonodale, possono essere monitorati con la sorveglianza attiva: si eseguono ecografie ogni sei mesi e si interviene solo in caso di crescita o di modifiche sospette. Gli studi dimostrano che molti di questi noduli rimangono stabili per anni, evitando così un intervento chirurgico non necessario.
«Quando invece il tumore è di dimensioni maggiori, mostra caratteristiche istologiche più aggressive o ha già dato luogo a metastasi linfonodali, è necessario procedere con la chirurgia», indica l’esperta. «A seconda dei casi, si esegue una lobectomia o una tiroidectomia totale. Dopo l’asportazione, si può valutare la terapia radiometabolica con iodio radioattivo per eliminare eventuali residui di tessuto tiroideo, linfonodi metastatici o micro-metastasi non rilevabili con gli esami di imaging. Lo iodio radioattivo viene assorbito selettivamente dalle cellule tiroidee e consente di trattare anche metastasi a distanza, come quelle polmonari, in modo mirato e poco invasivo».
Tra l’altro, rispetto ad altri tumori, qui c’è il vantaggio di poter dosare nel sangue la tireoglobulina, un marcatore estremamente sensibile e specifico. Dopo l’asportazione completa della tiroide, i suoi valori si azzerano. Se torna a essere rilevabile, può indicare la presenza di una recidiva o di una metastasi, permettendo un intervento precoce e mirato.
Infine, nei rari casi di tumori tiroidei particolarmente aggressivi o resistenti alla terapia con iodio radioattivo, oggi sono disponibili farmaci mirati che agiscono su specifici bersagli molecolari della malattia. Pur essendo terapie croniche e non prive di effetti collaterali, rappresentano un’opzione efficace nei casi più difficili. «Nel complesso, il carcinoma tiroideo ha una prognosi eccellente e nel 90% dei casi è completamente guaribile», conclude l’esperta.