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L’Italia detiene il primato mondiale nella ricerca e nella cura del melanoma, il più aggressivo tra i tumori della pelle. Lo ha decretato Expertscape.com, il sito americano ideato da ricercatori dell’Università del North Carolina che basa la sua classifica sulla produzione scientifica degli specialisti nei vari settori della medicina. In questo caso il centro di ricerca di eccellenza è l’Istituto nazionale tumori Fondazione Pascale di Napoli e lo specialista numero uno è Paolo Ascierto, direttore dell’unità di Oncologia melanoma, immunoterapia oncologica e terapie innovative del Pascale. Intervistato da Nicoletta L. Bagliano, illustra le cure attualmente disponibili per questo tumore della pelle.
Professor Ascierto, che effetto fa questo primato?
«Questo riconoscimento non fa che confermare il valore non solo dei nostri studi ma del gioco di squadra. Perché non si può essere primi al mondo senza un team di professionisti, qual è appunto quello che dirigo. L’Italia è all’avanguardia nell’immunoterapia, nella sperimentazione clinica, nelle idee. In particolare, è leader nella terapia neoadiuvante – la nuova frontiera a livello terapeutico nella cura del melanoma – dove gli studi, svolti in sinergia con il Netherlands Cancer Institute di Amsterdam e il Melanoma Institute Australia, evidenziano risultati molto promettenti, in termini sopravvivenza e di guarigione».
Entriamo nello specifico: in che cosa consiste la terapia neoadiuvante?
«È un trattamento che viene eseguito prima dell’intervento chirurgico: è nato anni fa nella cura del tumore della mammella con lo scopo di ridurne le dimensioni e rendere operabili tumori che prima non lo erano. Nel caso del melanoma, invece, la neoadiuvante non ha l’intento di rendere operabile un tumore che non lo era, bensì di immunizzare meglio l’organismo del paziente».
In che modo si immunizza il paziente?
«Attraverso l’immunoterapia. Si tratta di farmaci che stimolano il nostro naturale sistema di difesa a riconoscere il tumore e attaccare le sue cellule. Una volta svolto il trattamento, e poi asportato il tumore chirurgicamente, le cellule immunitarie (i linfociti) saranno ancora “armate e ben istruite” e quindi in grado di continuare a lavorare contro eventuali residui tumorali o metastasi. Il razionale della strategia neoadiuvante è chiaro: somministrare l’immunoterapia con il tumore ancora presente consente un’attivazione più potente del sistema immunitario, facilitando un attacco sistemico più efficace. Una nuova prospettiva terapeutica: più breve, più mirata e potenzialmente più duratura».
Quali molecole sono utilizzate e con quali risultati?
«Attualmente in Italia, nella strategia neoadiuvante per il melanoma al terzo stadio, si utilizza il pembrolizumab (approvato dall’Aifa e rimborsato dal Servizio sanitario nazionale). Lo studio Swog-1801, pubblicato su The New England Journal of Medicine, ha evidenziato che il trattamento con tre cicli di questo farmaco prima della chirurgia, e il rimanente dopo l'intervento fino a un anno totale, è risultato più efficace rispetto al classico trattamento adiuvante (quello cioè dopo l’operazione).
Ma ci sono altre due molecole, usate in associazione, che stanno dando risultati incoraggianti…
«È vero: si tratta dei farmaci immunoterapici nivolumab e ipilimumab, utilizzati nella cura del melanoma metastatico. In ambito neoadiuvante, la loro combinazione (che, per questa indicazione, è ancora in attesa della rimborsabilità) ha mostrato risultati molto promettenti. Lo evidenzia lo studio Nadina, pubblicato sulla stessa rivista scientifica, che rappresenta una svolta nella gestione del melanoma in stadio III. In base ai dati dello studio, il trattamento neoadiuvante con immunoterapia ha dimostrato non solo un’elevata efficacia in termini di risposta patologica completa (in sigla pCR, si verifica quando non si riscontra più alcuna traccia del tumore nella zona operata, ndr), ma anche un impatto significativo sulla sopravvivenza a lungo termine. Chi ottiene una risposta completa ha infatti tassi di recidiva estremamente bassi, al punto da poter in molti casi evitare la terapia adiuvante (post intervento). Con la combinazione nivolumab-ipilimumab si ottengono tassi di risposta patologica completa intorno al 60%, con una sopravvivenza libera da recidiva a due anni superiore all’85% nei pazienti che raggiungono la pCR».
Che cosa significa in prospettiva?
«Questo suggerisce che per molti pazienti la terapia neoadiuvante potrebbe non solo migliorare l’efficacia del trattamento, ma anche permettere di evitare quella adiuvante, con benefici in termini di qualità della vita e risparmio di risorse».
In caso di melanoma il bisturi è sempre necessario?
«L'asportazione chirurgica è essenziale per tutti gli stadi precoci. Quando possibile, l'intervento è sempre una soluzione fondamentale. Con il trattamento neoadiuvante, ovvero immunizzare prima dell'intervento con il bisturi negli stadi III, è cambiato il paradigma della chirurgia».
Possiamo dire che oggi dal melanoma si guarisce?
«Riusciamo a guarire il 50% della malattia metastatica e con i trattamenti adiuvanti negli stadi precoci, a 9,5 anni dall'inizio della terapia, il 70% dei pazienti è ancora vivo».
La ricerca, mondiale ma soprattutto italiana, dunque non si ferma…
«Sono molte le strade che stiamo percorrendo nella sperimentazione di nuove strategie di cura, soprattutto per il melanoma metastatico. Una strada è quella dei virus oncolitici, una forma di immunoterapia che utilizza virus modificati per attaccare e distruggere le cellule tumorali, risparmiando quelle sane. Poi stiamo studiando la terapia Til (Tumor infiltrating lymphocytes). È una forma avanzata di immunoterapia personalizzata che utilizza i linfociti infiltranti il tumore, cioè le cellule immunitarie del paziente stesso che hanno già riconosciuto il tumore. Queste cellule vengono isolate dal tumore asportato, espanse in laboratorio in grandi quantità, e poi reinfuse nel paziente dopo una chemioterapia linfodepletiva (mirata a ridurre il numero di globuli bianchi, ndr). L’obiettivo è rafforzare la risposta immunitaria naturale contro la malattia. È una strategia promettente, soprattutto nei tumori solidi avanzati, come il melanoma metastatico, e sta mostrando risultati interessanti in studi clinici internazionali».
L’Italia è all’avanguardia anche negli studi di sequenza, che cercano di capire non solo quali farmaci funzionano, ma in quale ordine ottenerne il massimo beneficio.
«Esatto, in particolare nello studio Secombit, svolto a livello internazionale ma nato in Italia, di cui sono principal investigator, abbiamo confrontato tre strategie di cura del melanoma avanzato con mutazione del gene Braf: iniziare con la target therapy (farmaci che colpiscono particolari bersagli molecolari presenti sulle cellule tumorali, ndr), iniziare con l’immunoterapia, oppure adottare una sequenza “sandwich” con target therapy seguita da immunoterapia. I risultati hanno mostrato che partire con l’immunoterapia (nivolumab e ipilimumab) garantisce una sopravvivenza più lunga rispetto a partire con la terapia target. Questo aiuta i medici a prendere decisioni sempre più personalizzate per i pazienti, sulla base della biologia del tumore e delle condizioni cliniche».
È allo studio anche un vaccino?
«Sì, stiamo sperimentando un vaccino terapeutico (a mRna). Quindi non per prevenire il melanoma, ma per prevenire le metastasi. È indicato per quei pazienti che hanno fatto l’intervento chirurgico: associato all’immunoterapia questo vaccino personalizzato andrebbe a potenziare ulteriormente il sistema immunitario. Lo studio in fase 2 ha dato risultati molto positivi. Ora siamo in attesa degli esiti della fase 3, che saranno disponibili nella seconda metà del 2026».
Facciamo un passo indietro: il melanoma è un tumore maligno che ha origine dai melanociti, le cellule responsabili della produzione di melanina, il pigmento che conferisce colore alla cute. Ha sempre origine dalla degenerazione di un neo?
«Non necessariamente. Anzi, il melanoma nasce prevalentemente ex novo. Solo nel 15-20% dei casi deriva da un neo che si trasforma. Per questo è fondamentale osservare la propria pelle e tenere d’occhio i cambiamenti. Quando non riusciamo da soli (mi riferisco alla schiena per esempio) facciamoci aiutare. Due diagnosi su cinque di melanoma avvengono grazie all’intervento di una persona vicina (familiari o amici). Anche qui il gioco di squadra è fondamentale».
A proposito di famiglia, esiste una familiarità in questo tumore?
«Sì, ma non una ereditarietà. Nel senso che non si trasmette il melanoma in sé, ma la predisposizione a svilupparlo».
Non possiamo non parlare di prevenzione, che resta l’arma principale per combattere il tumore.
«Dobbiamo distinguere due tipi di prevenzione. Quella primaria e quella secondaria. La prima ha a che fare con gli stili di vita: evitare l’esposizione al sole dalle 12 alle 16 (quando l’incidenza dei raggi ultravioletti è maggiore), usare sempre protezioni molto alte, non scottarsi, fare particolare attenzione ai bambini quando stanno al sole, eseguire controlli periodici dal dermatologo».
Le regole della prevenzione secondaria invece quali sono?
«Sono le regole della diagnosi precoce, grazie alla quale un melanoma scoperto in fase iniziale si può risolvere con il solo intervento chirurgico. La prima regola è quella del “brutto anatroccolo”: un neo sospetto, all’interno di un contesto di tanti nei, va fatto controllare immediatamente dal dermatologo. L’altra regola è l’osservazione periodica dei nei, per valutare se la forma è irregolare, se il colore è variabile, le dimensioni in aumento».











