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In Italia mancano gli infermieri e la Chiesa offre il suo contributo, facendoli arrivare dall’estero. Lo ricorda don Massimo Angelelli in occasione del Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità, che si celebra a Roma il 5 e il 6 aprile. Il direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Conferenza episcopale italiana (Cei) spiega come il progetto “Samaritanus Care” abbia promosso l’arrivo dall’estero di operatori già formati.
Don Angelelli, quanti professionisti approderanno nel nostro Paese?
«Proprio in queste settimane sono in arrivo 60 professionisti, presentati da Università cattoliche e comunità missionarie straniere. Al momento provengono da Tanzania, Camerun, Perù e India».
Dove lavoreranno?
«Saranno inseriti in alcune delle 1.370 strutture associate alle due maggiori associazioni di categoria dei settori sanitario e sociosanitario di ispirazione cattolica, Aris e Uneba».
Quanti infermieri mancano da noi?
«Oltre 60mila. Dopo gli anni del Covid, la professione infermieristica è percepita come troppo faticosa, soprattutto per i turni che richiede».
Come se ne esce?
«Bisognerebbe offrire la possibilità di carriera e livelli differenti di specializzazione, il che è già in corso di approvazione. Anche il recente recupero della figura dell’assistente infermiere aiuta a dare progressione al lavoro».
La carenza riguarda anche i medici. Se è vero che il loro lavoro, come dice anche papa Francesco, è una vera missione, oggi l’Italia sembra a corto di vocazioni…
«I laureati ci sono e, nei prossimi anni, aumenteranno. Quello che mancano sono alcune specializzazioni. Per esempio, secondo i dati del 2024, gli ultimi disponibili, su 1.020 posti banditi per la medicina di emergenza sono stati assegnati solo 304 contratti. In generale, su 51 specializzazioni presenti, soltanto il 19,6%, ovvero una decina, hanno assegnato tutti i posti previsti».
Perché accade?
«Perché alcune specializzazioni sono rischiose in termini di contenziosi che si possono generare, oppure gravose, come quelle per diventare medici nei reparti d’urgenza. Sono gettonate le specializzazioni di chirurgia plastica e dermatologia, mentre altre non vengono scelte… La Chiesa segue queste dinamiche con grande attenzione. Stiamo alimentando una rete di convenzioni con Università cattoliche e comunità missionarie all’estero, perché inviino i loro laureati a lavorare in Italia».
Il Papa ha scritto, nella Bolla di indizione del Giubileo, che occorre offrire agli ammalati «segni di speranza». Concretamente, che cosa significa?
«Nell’ottica cristiana, la malattia non ha l’ultima parola, il Papa ci ricorda che, anche nel tempo della sofferenza, la prospettiva della vita è proiettata alla gioia dell’eternità. Visitare gli ammalati è quell’opera di misericordia che diventa testimonianza di speranza. Il paziente, oltre a chiedere la prestazione sanitaria, chiede di “sentirsi” curato. E questo impone al medico di recuperare la propria dimensione empatica».
Il Papa ricorda che la cura è un atto di dignità. Eppure, le liste d’attesa spingono molte persone a rinunciare alle cure…
«Il Servizio Sanitario Nazionale dovrebbe difendere il criterio di equità. Di fatto, però, si sta creando un meccanismo di squilibrio, per cui chi ha più possibilità economiche si cura meglio. E ciò alimenta la “cultura dello scarto”, come la definisce Papa Francesco. Sicuramente sarà utile aumentare la spesa per la sanità, per avere maggiori e migliori prestazioni, ma prima ancora è necessario spendere bene i soldi che abbiamo. In questo momento, la sanità italiana è paragonabile a un secchio bucato dal quale esce tanta acqua, nonostante ne venga versata parecchia. È indispensabile un ripensamento del sistema sanitario».
Visitare gli ammalati è un’opera di misericordia, quindi aiuta ad acquisire l’Indulgenza in questo Giubileo. Al di là dell’occasione specifica, sarebbe opportuno insegnare ai ragazzi a farlo?
«Quando ero adolescente, nella mia parrocchia ci venivano proposte esperienze di questo tipo, è un elemento di maturazione e di formazione necessario. Come Ufficio nazionale, abbiamo promosso nelle Diocesi diversi progetti di volontariato e spingiamo a questo tipo di esperienza perché la vicinanza ai malati aiuta i ragazzi a crescere».