PHOTO
Mi chiamo Martina Da Damos e sono un’infermiera. Cinque anni fa avrei usato le stesse parole, per presentarmi. Oggi so che non significano più la medesima cosa, perché nel frattempo sono io a essere cambiata. Sono tornata a scuola, da grande. Mi sono diplomata.
A cinquant’anni passati, con una famiglia e un lavoro intenso che amo, ho fatto una rivoluzione in due tempi: prima un secondo biennio superiore; poi la quinta. Le lezioni di notte, le compagne, i temi, le campanelle, l’esame di maturità. La gita, perfino: mi sono ripresa tutto. E ho chiuso un cerchio rimasto in sospeso per troppi anni.
«Qualcosa si era interrotto nella mia adolescenza»
Ho capito presto che nella mia adolescenza qualcosa si era interrotto. E dire che, da bambina, studiare era una gioia: adoravo le maestre delle elementari. Certo, in matematica stentavo, però al tempo non ci si dava peso (l’inclinazione, dicevano). All’improvviso, alle medie e alle superiori, è diventato tutto tremendo: fatica, mortificazioni, mentre, a casa, i problemi della mia famiglia mi costringevano ad arrangiarmi da sola. Ho fatto quello che ho potuto, ma non è stato abbastanza: ce l’ho ancora presente la sensazione di vedersi scivolare davanti la possibilità di “arrivarci”.
«Non si erano accorti della mia discalculia»
Ora so che sono discalculica. Ma sono dovuti passare quarant’anni per capire, nella scuola degli adulti, che la mia difficoltà originaria era dovuta a un disturbo di apprendimento: quando gli insegnanti del serale hanno avanzato l’ipotesi, sono andata volontariamente a farmi testare. È così che ho potuto comprendermi.
Da ragazzina, invece, l’etichetta che la scuola mi ha consegnato è stata spiccia: una studentessa “asina”, da avviare al mondo del lavoro. Questo bel marchio me lo sono interiorizzata e portata avanti. Ho tenuto duro per tre anni, il minimo indispensabile per accedere alla scuola regionale per infermieri. Poi, subito, la corsia.
«Ho amato da subito la mia professione»
«Infermiera!». Quante volte sono stata chiamata così? Anche nella grande sofferenza il tocco amorevole è fondamentale, l’ho imparato nella mia carriera in ambito sanitario. Penso che il dolore non debba essere dimenticato mai, dobbiamo sempre dare un valore alla sofferenza e a chi soffre: il diritto a essere considerati persona e non malattia. Ho amato la mia professione da subito, e ho iniziato a viaggiare molto tra le Dolomiti e Venezia.
Eppure, il tarlo restava lì. Lo volevo, un diploma, ma mi sono sempre tenuta da parte. Avevo il lavoro, poi la famiglia, poi un figlio. Però mi rimaneva qualcosa da colmare: mi sentivo incompleta. Una vita incompleta.
L’esistenza a volte ci mette di fronte a percorsi in salita. L’unico modo per non perdersi è cercare in sé la capacità di rinascita per superare le difficoltà senza esserne devastati.
«Non l’ho presa come una sfida, ma come una ricerca»
Una mattina ho deciso. Ho preso il telefono, ho chiesto un appuntamento. Belluno, Istituto Superiore Tomaso Catullo, indirizzo sociale. Tremavo? Sì. Sudavo? Anche.
La prima sera in quella classe composta di giovani donne mi sono sentita tremendamente adulta. Ma il bene è stato che non l’ho presa come una sfida: piuttosto, una ricerca. Certo, ritornare a sedermi su un banco è stata una prova, ma mi sono confrontata con le mie difficoltà su un piano molto interiore.
La scuola da grandi è un luogo in cui si incontrano e si misurano in modo diverso, rispetto che nella professione, i propri limiti e le proprie capacità. La consapevolezza più forte che ho costruito nei mesi in classe è stata proprio la mia esigenza di ricerca: trovare nella conoscenza, direi, una intimità con la bellezza.
Forse, in fondo, è stata questa la molla che mi ha spinta a riprovarci. Quando le lezioni sono appaganti, diventa un piacere stare lì nonostante la fatica. Ci sono stati momenti in cui avevo le lacrime per la bellezza di capire. È una cosa difficile da spiegare.
«C’è stato un momento in cui ho pensato di mollare»
I mesi hanno cominciato a passare e io ho imparato l’arte di dividermi. Due lavori, il poliambulatorio e la libera professione, la famiglia, la stanchezza.
La sera, la campanella mi faceva ricordare che avevo 56 anni e col mio zainetto stavo andando a scuola: «Guarda te quanto sto camminando», mi dicevo. «Esco dalla classe di notte e mi sento ancora un’adolescente!». A casa, un boccone al volo e alle 22.30 iniziavo a studiare finché non mi addormentavo con il naso su Pascoli, le derivate o l’argomento del giorno.
C’è stato un momento in cui ho pensato di mollare. Succede. Ha un peso stare seduti la sera dopo otto ore di lavoro e basta veramente poco, anche solo una frase, in momenti di fatica estrema, per far sì che tutto crolli. Ti chiedi se chi hai davanti abbia veramente compreso la responsabilità del proprio ruolo, la fatica di chi studia, lavora e cerca di impegnarsi nonostante tutto (a volte, contro tutto).
E poi, tu puoi essere determinato, motivato, ma se non hai qualcuno che le lezioni te le fa piacere (e così le rende meno faticose), dopo qualche mese ti viene da chiederti: «Ma chi me lo fa fare».
Invece se trovi insegnanti che ci credono (che ti credono), e ti dicono «vai, ce la puoi fare, guarda da dove sei partita», allora trovi la forza di ritrovare il tuo centro. Nei momenti di crisi è importante tornare alle proprie motivazioni, ricordare la spinta iniziale: bisogna essere “visti” per riprendere equilibrio e decidere di proseguire.
«Che strano, la paura rende tutti ragazzini»
Non sono (solo) i programmi che ti formano, ma è il percorso anche umano che ti spinge a estrapolare le potenzialità che hai come persona. E anche quell’idea di essere troppo attempata per tornare a studiare: è una questione di paura. La paura rende tutti ragazzini.
Il giorno della maturità, prima di entrare nell’aula pensavo di non sapere assolutamente niente; avevo la testa immobilizzata, come un’adolescente. Ma è scattato qualcosa.
Mi vedo, l’istante in cui mi viene mostrata l’immagine da cui partire: Picasso, un vecchio con una chitarra azzurra. Il vuoto, e subito dopo l’illuminazione: quello che avevo imparato, che mi aveva fatta sentire cambiata, ha cominciato a uscire. Ho iniziato dalla chitarra, ho ragionato di comunicazione, poi Ungaretti, non l’avrei più finita. Sono passati mesi, ma ho ancora la sensazione precisa di quando parlavo davanti alla commissione.
È stato un gran momento.
E adesso che mi sono diplomata? Beh, sono sempre io, ma per la prima volta mi sento brava. Ho messo insieme famiglia, scuola lavoro, studiare di notte. E non è poco.
Mi sento più serena, si è completato qualcosa e sono contenta perché lo studio mi ha dato libertà di testa, mi sono arricchita, sono riuscita a commuovermi con la poesia Ho sceso dandoti il braccio di Eugenio Montale, ho applaudito chi arrivava in classe al tema dopo aver appena smontato notte, sono stata parte di qualcosa che mi ha permesso di vedermi dentro un percorso condiviso.
E adesso sto leggendo tantissimo, ancora, e ragiono che, in fondo, questo è stato un inizio, un altro inizio della mia vita. E non è finita qui.
Testimonianza di Martina Da Damos raccolta da Michela Fregona