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Gennaro Carillo è professore ordinario di Storia del pensiero politico all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, dove insegna anche Storia della tradizione classica e Storia della filosofia antica e medievale (foto di Marco Carotenuto)
Pensare prima di agire, riflettere prima di parlare, non prevaricare gli altri: la temperanza insegna a essere più equilibrati in una società che oggi invece premia chi è più esagerato, aggressivo, spavaldo. Eppure, al di là delle implicazioni etiche, un atteggiamento più pacato farebbe bene anche alla salute. «Tutto con moderazione», raccomandava nel V secolo a.C. Ippocrate, il padre della medicina.
Sono tanti i motivi per rispolverare l’antica “virtù dei forti”, come spiega il filosofo politico Gennaro Carillo, docente all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, nel saggio Temperanza. «Il libro», spiega, «nasce dalla constatazione che l’eccesso e la sfrenatezza hanno vinto pressoché ovunque, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti».
Professor Carillo, che cos’è la temperanza?
«Il termine greco sophrosyne, che Cicerone tradusse con temperantia, qualifica una virtù legata alla capacità di controllare le pulsioni che, se fossero lasciate libere, potrebbero rivelarsi distruttive. Ma governarle non significa reprimerle. Nel Gorgia di Platone, Callicle dice a Socrate: “Solo le pietre e i morti non desiderano”. La vita stessa è desiderio. Il problema è contenerlo entro una misura giusta. Per farlo, a giudizio di Platone, occorre una scienza. Ecco perché i numeri e la musica sono per lui sono così importanti: perché insegnano il metron, la misura dell’agire virtuoso, il solo che possa renderci felici».
La moderazione è una via verso la felicità?
«Se per felicità intendiamo accumulazione compulsiva di beni superflui o adesione incondizionata a standard estetici che ci impongono di prolungare oltremisura una giovinezza apparente, è evidente che una virtù come la temperanza risulti scandalosa, se non addirittura sovversiva. Ma, per l’etica classica, un uomo condannato a soddisfare desideri sempre nuovi viene paragonato a colui che pretenda di riempire un otre forato: ci sarà sempre un vuoto da colmare che frustrerà il suo bisogno di pienezza, e una meta che si allontana a mano a mano che ci avviciniamo non è certo un’immagine di felicità. Con Simone Weil risponderei che invece bisogna smettere di desiderare a vuoto e cominciare a desiderare il vuoto. Abbandonando l’ossessione di una pienezza irraggiungibile».
Oggi domina l’insofferenza verso ogni forma di limite…
«Come in tutte le epoche di crisi, il senso della misura passa per mollezza, assenza di carattere. È l’esito di un’erosione lenta, con le virtù ridotte a vizi e i vizi promossi a virtù. Ci si vanta di condotte e posture delle quali un tempo ci si vergognava. È libertà? Progresso? Una caduta nella barbarie, direi. Il rischio che si corre è alto, anche perché senza temperanza non c’è la polis, i cittadini non danno vita a una comunità. Lo abbiamo sperimentato durante il Covid: solo un’assunzione di responsabilità collettiva ha reso possibile il superamento dell’emergenza. La pandemia ci ha anche imposto un ripensamento del concetto di libertà. Pensiamo alla mascherina: a nessuno ha fatto piacere indossarla, ma un dispositivo poco invasivo ha salvato vite umane e tanto basta. Un’idea assoluta di libertà, sconfinante nella licenza perché non temperata, non sarebbe stata compatibile con l’uscita dalla crisi».
Perché essere temperanti non è più di moda?
«Già nell’Ottocento, se non prima, comincia il declino della temperanza. Perché è una virtù passiva, non eroica, una virtù che non si vede, direbbe Leopardi, e quindi non si apprezza. In un tempo dominato dalle apparenze, i social alimentano intemperanza ed espressioni d’odio. Succede un po’ come nell’apologo dell’anello di Gige in Platone: un anello che renda invisibili, garantendo impunità, ti porterebbe inevitabilmente a fare le cose peggiori, sicuro di farla franca. Ecco: i social funzionano come un anello di Gige su scala planetaria, spegnendo la consapevolezza che le parole sono armi. Di qui, la necessità della temperanza, intesa anche come capacità esercitare un’azione frenante sul linguaggio».


La copertina del saggio Temperanza di Gennaro Carillo, edito da Il Mulino
La temperanza è una virtù di genere?
«La morale tradizionale la riteneva una virtù femminile, proprio perché reputata non eroica, quindi non necessaria alla guerra, monopolio degli uomini. Con Platone le cose cambiano: la temperanza dev’essere posseduta da tutti i cittadini senza distinzioni di classe sociale o di genere. Altrimenti la polis s’indebolisce, si ammala. E muore».
Come si può praticare l’arte della misura nella vita quotidiana?
«Provando il più possibile a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, a partire dai discorsi che pronunciamo. E bisognerebbe soprattutto pretenderlo da chi rivesta cariche pubbliche o comunque sia una figura pubblica. Qui entrano in gioco i modelli, gli esempi. E il panorama globale è sconfortante. Imparare anche a disconnettersi, a non dipendere dall’opinione dei molti: anche questo può essere salutare, riducendo l’ansia di piacere e compiacere a tutti i costi. È quella cura di sé, della propria psiche, che Platone consiglia - inascoltato - al giovane e ambizioso Alcibiade, troppo impegnato a inseguire il consenso facile della maggioranza, assecondandone gli umori.
Quali rischi corrono una persona e una società che dimenticano la temperanza?
«Il pericolo è quello di sconfinare nella hybris, nel delirio di onnipotenza. Questo vale sia per un individuo singolo, sia per una società intera. Nell’immaginario medievale, senza temperanza non c’è pace. Né dentro né fuori di noi. La guerra è una forma estrema di intemperanza. Dalla tragedia greca sappiamo che alla hybris segue sempre il castigo e che le cadute sono tanto più fragorose quanto più alta è la posizione raggiunta. Conoscere il destino di non pochi eroi tragici potrebbe essere un freno ad ambizioni smodate».







