Quando salgo sul palco, non penso più a niente. Mi siedo al pianoforte, un bellissimo Steinway nero a coda, e provo a convogliare l’ansia e l’emotività nei tasti. (…) Pensavo che non ce l’avrei fatta, eppure è stato un trionfo.
Questa serata mi sembrava più grande di me, e la cosa peggiore è che a mancarmi, maledettamente, erano anche i suoi rimproveri.
Da un lato il sollievo di non vederlo, dall’altro un senso di smarrimento, inconcepibile eppure innegabile. Sono talmente abituata ad avere un dito conficcato nella schiena, con lui che mi sgrida dicendomi: «Stai dritta», che stasera mi sento sola.
«Stai attenta, non sbagliare» ripeteva a casa ogni volta che sedevo allo strumento, come se la conoscesse lui, la musica. Lo so che è insensato, ma senza di lui che mi scredita continuamente, è come se mi mancassero gli appigli.
A furia di demolirmi, mi ha convinta di non essere in grado di farcela da sola.
D’altra parte, quando me ne sono andata di casa, è stato molto chiaro: «Dove pensi di andare senza di me? Senza i miei soldi non sei nessuno».

«La libertà vale più dei soldi»
Ho ricominciato da zero, ma ho capito che la mia libertà vale molto di più dei soldi. Più della nostra bella casa, più delle settimane bianche, più degli anni di sacrifici fatti insieme. La libertà è la cosa più preziosa che abbiamo.

Sentimenti

Gelosia: la sindrome di Otello non è amore

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E proprio la mia libertà lo mandava fuori di testa. «Stai attenta, Giu’, che ho un amico con un escavatore. Se non inizi a comportarti bene, ti ritrovi sottoterra» mi diceva.
Questa frase gentile la ripeteva spesso, anche davanti ai nostri amici. Una minaccia che tornava quando meno me lo aspettavo. Quando magari avevamo in programma una cena in compagnia e lui improvvisamente cambiava idea, decidendo che dovevamo restare a casa, arrabbiandosi per motivi che non comprendevo. Non si faceva nessuno scrupolo con le parole. E, tutto sommato, neanche con i fatti.
Per questo devo tenere in mente il sollievo di non averlo più tra i piedi. Devo tenere in mente che la perfezione, che lui esigeva da me, non esiste.
Eppure, anche stasera, durante il concerto, mi ritrovo spesso a tirare su le spalle, a raddrizzare la postura, a stare dritta, come lui mi ha ordinato di fare per anni. Il suo dito, come uno spillone sulla schiena, lo sento pungere anche in sua assenza.
Ascoltando il quartetto d’archi che mi accompagna al piano per una parte della performance, penso che per fortuna ci sono loro a farmi compagnia, non sono poi veramente sola sul palco. Siamo qui insieme e qui dobbiamo stare. Dobbiamo suonare. Dobbiamo solo arrivare alla fine.
Dopo tutti i concerti ero abituata a subire un processo. A sentirlo criticare e correggere la mia performance. Con gli amici si vantava della mia bravura, ma poi, rimasti soli, mi umiliava. Iniziavano le correzioni, l’elenco dei miei difetti: «Qui avresti potuto fare meglio, là ti è scappato qualcosa». Che stupida a non dire niente, come se lui fosse capace di suonare il piano. Mi ha sabotata e io mi sono lasciata sabotare.
Stasera, a Nola, arrivano solo complimenti. Che strano. E che bello, certo.

Il testo di queste pagine è tratto dal libro autobiografico della pianista Giuseppina Torre, scritto con la giornalista del Corriere della Sera Barbara Visentin, Un piano per rinascere (Solferino).
Il testo di queste pagine è tratto dal libro autobiografico della pianista Giuseppina Torre, scritto con la giornalista del Corriere della Sera Barbara Visentin, Un piano per rinascere (Solferino).

Il testo di queste pagine è tratto dal libro autobiografico della pianista Giuseppina Torre, scritto con la giornalista del Corriere della Sera Barbara Visentin, Un piano per rinascere (Solferino).