«Esserci sempre». Per anni, ogni volta che indossavo l’uniforme della Polizia di Stato, questo motto dava un senso alle mie giornate. Oggi, con l’abito religioso blu (lo stesso tono di quello della Polizia, buffo, no?), è sempre questa frase a ispirare le mie giornate. Voglio esserci sempre per i giovani, per chi ha bisogno, per chi cerca un senso alla propria esistenza e alla propria vita.
Sono nata il 5 febbraio 1969 a Visciano, poco più di quattromila abitanti in provincia di Napoli, il paese delle nocciole e di un santuario famoso in zona. La mia era una famiglia umile, ma salda e dignitosa: mia madre casalinga e mio padre prima muratore e poi bidello che, per provvedere alla nostra sussistenza, ha girato il mondo: Venezuela, Germania, varie città del Nord Italia… Un grande lavoratore, che non ha mai fatto mancare nulla a me e a mio fratello maggiore.
Ho trascorso un’infanzia serena, tra casa, scuola e parrocchia, dove i miei frequentavano l’Azione cattolica e io ero animatrice di un gruppo di ragazzi. Fin da piccola, avevo una spiccata determinazione nel voler aiutare gli altri. Per questo mi sarebbe piaciuto diventare infermiera. Ma poi, si sa, crescendo i sogni si modificano.
Il giorno dopo aver compiuto 18 anni, per caso, mi è capitato di vedere il bando per il concorso in Polizia. Avevo iniziato a pensarci quando, da ragazzina, seguivo in televisione un telefilm, i Chips, con due agenti che aiutavano le persone, oltre che arrestare i cattivi. Di solito, si ha l’idea di una polizia che reprime. Per me, invece, le forze dell’ordine sono sempre state a tutela e a servizio di tutti.
Così ho fatto la domanda e ho vinto il concorso, il secondo in Italia aperto anche alle donne.

Specialista negli inseguimenti
Sono stata arruolata nel 1989, dopo aver frequentato il corso di addestramento a Caserta. Il primo incarico fu al commissariato di Roma, dove ero incaricata del servizio pattuglie e delle volanti. In quel periodo arrestammo molti giovani sbandati, che avevano la stessa sofferenza di coloro che incontrai all’ufficio stranieri della questura di Napoli, dove venni trasferita in seguito: di mattina mi occupavo di permessi di soggiorno, la sera di contrasto alla prostituzione. Non posso dimenticare le tante donne incrociate, sfruttate non solo nel corpo…
Anche se la professione non era facile, mi appagava, sentivo che quello era il mio posto: avevo un lavoro che mi appassionava e attraverso il quale concretizzavo il desiderio di fare qualcosa per gli altri. Ero circondata da colleghi con profonda sensibilità, avevo un fidanzato che amavo e da cui ero riamata, una casa, una macchina e una famiglia serena.
Ma a 24 anni, al mio quinto anno in Polizia, provavo un’inquietudine dentro. Mi chiedevo: a questi giovani arrestati, qualcuno ha mai detto «ti voglio bene»? Ha mai spiegato che c’è un’altra possibilità nella loro vita? Qualcuno ha mai parlato a queste donne aiutandole con un «coraggio, possiamo cercare insieme una soluzione»?

Lavoro

Come capire da giovani quale lavoro fare

Come capire da giovani quale lavoro fare
Come capire da giovani quale lavoro fare

Il potere di un abbraccio
Intanto, avevo iniziato a frequentare una comunità di suore apostoline della famiglia paolina, l’ultimo dei dieci istituti religiosi fondati da don Giacomo Alberione nel 1959, e iniziavo a trovare le mie risposte. La spinta, però, me l’ha data un ragazzo, in stato di fermo in commissariato. Ricordo tutto come fosse accaduto ieri, invece sono trascorsi 30 anni. Era al suo primo furto e aveva iniziato a piangere, confidandomi di aver paura. Alzò lo sguardo verso di me e mi chiese un abbraccio, tremando. E io dissi di no, perché erano i primi anni di divisa, ero rigida, mi raccomandavo di tenere una giusta distanza… Tornata a casa, mi guardai allo specchio chiedendomi chi stessi diventando: aveva chiesto soltanto un abbraccio, come un bambino che chiede protezione. E io ero stata dura. Ecco, quell’episodio ha fatto scattare la scintilla che ha acceso il fuoco.
Chiesi un’aspettativa che non mi fu concessa. Non è stato facile scegliere, stavo lasciando qualcosa di solido, dal lavoro ai sentimenti.
Con il mio fidanzato avevo parlato del mio malessere, ma pensava fosse passeggero. Quando gli rivelai la mia decisione di abbracciare il percorso religioso, capì e mi lasciò libera di seguire la mia strada. Con i miei genitori, invece, è stato doloroso, soprattutto con mio padre, che ha impiegato tre anni per accettare che mi fossi licenziata. Anche miei amici ce la misero tutta per cercare di farmi cambiare idea…
Non ho perso l’amore e non sono pentita. La mia vita, come indica il carisma delle suore Apostoline a cui appartengo, è spesa per aiutare tutti a trovare e vivere la propria personale vocazione. Mi sento madre di tanti.
Sono superiora generale della mia congregazione, che è presente con le sue suore in Italia, Brasile e Polonia. Oltre all’accompagnamento vocazionale dei giovani, sensibilizziamo catechisti ed educatori e, nello spirito di don Alberione, usiamo strumenti editoriali: pubblichiamo la rivista Se Vuoi.
A volte sento un po’ di nostalgia, ma incontro i miei ex colleghi di corso in Polizia ogni cinque anni, per celebrare una messa e raccontare le nostre vite. Cambiando “divisa”, non ho però mutato la mia missione di conforto e di presa in carico dei più fragili.

 

Testimonianza raccolta da Agnese Pellegrini