PHOTO
Una scena di Avatar: Fuoco e cenere, nelle sale dal 17 dicembre
Chiunque può arrabbiarsi: questo è facile. Ma arrabbiarsi con la persona giusta, nella misura giusta, al momento giusto, per lo scopo giusto e nel modo giusto, non è cosa semplice». Così scriveva Aristotele, oltre duemila anni fa, nell’Etica Nicomachea, ricordandoci quanto la rabbia sia un’emozione tanto universale quanto difficile da governare. Tutti la proviamo, ma pochi riescono a incanalarla con la precisione di un raggio laser: focalizzata, diretta, capace di trasformarsi in forza costruttiva o distruttiva, sempre sotto il dominio della nostra volontà.
Una bussola interiore
«La collera è antica quanto la vita stessa», spiega Vittorio Gallese, professore ordinario di Psicobiologia all’Università degli studi di Parma. «È la voce primordiale che, molto prima delle parole, segnala all’altro un confine da non oltrepassare».
Secondo la teoria evoluzionistica di Charles Darwin, la rabbia rappresenta una delle sei emozioni primarie (insieme a gioia, tristezza, paura, sorpresa e disgusto), nate come ritualizzazione di comportamenti più complessi. «In natura», prosegue l’esperto, «un animale che vede invadere il proprio territorio non attacca subito: mostra i denti, emette versi minacciosi, alza il pelo. È un linguaggio preverbale che consente di risparmiare energie: basta comunicare l’intenzione di difendersi, senza arrivare allo scontro fisico». La rabbia, dunque, è una forma di comunicazione sociale, un messaggio che dice: «Attenzione, ci sono anch’io». Se ancora oggi il sangue ribolle davanti a un’ingiustizia, è perché quella bussola biologica continua a guidarci, dimostrando che ogni emozione nasce sempre in relazione agli altri.
Un carattere problematico
Il problema nasce quando il grido primordiale smette di essere una reazione momentanea e diventa un tratto caratteriale: una soglia di tolleranza più bassa che spinge alcuni a trasformare le piccole frustrazioni in esplosioni sproporzionate.
Questo può comparire già nei primi anni di vita, quando il bambino sperimenta la frustrazione di un bisogno negato. Il pianto inconsolabile di chi non ottiene subito attenzione o il gesto impulsivo di chi lancia un gioco per terra sono le prime, rudimentali forme di rabbia. In quei momenti, il corpo parla prima della mente, proprio come accadeva agli animali nelle origini evolutive, e uno scatto d’ira diventa un modo per affermare la propria presenza nel mondo.
Con la crescita, questo linguaggio primordiale si fa più complesso, ma la dinamica resta la stessa. Capita che un adolescente alle prese con una sfida virtuale abbandoni un videogioco con rabbia dopo una sconfitta (il cosiddetto rage quit). Scene come porte sbattute e joystick scagliati contro il muro possono sembrare esagerate. Eppure, dietro quel gesto non c’è solo la delusione per aver perso, ma il bisogno di ristabilire un senso di controllo, lo stesso che in età adulta può farci “scattare” per un nonnulla a casa, in ufficio, al supermercato, in macchina o in fila alla posta.
Gli stimoli della modernità
In generale, siamo più aggressivi di un tempo? «No, i grandi episodi di barbarie non sono certo un’invenzione moderna», riflette Gallese. «Il punto è che adesso viviamo sommersi da stimoli, immagini, notizie e paure che amplificano la percezione del pericolo e dell’ingiustizia. Alla fine del Novecento si cresceva in un mondo giovane, proiettato verso il futuro: la conquista dello spazio, l’uomo sulla Luna, la pace dopo la guerra, lo sviluppo economico. Oggi, invece, lo scenario si è capovolto: crisi ambientale, declino demografico, conflitti vicini e lontani, servizi che peggiorano, un senso diffuso che tutto stia andando nella direzione sbagliata».
In questo contesto, la frustrazione trova nuovi carburanti. «Molti reagiscono chiudendosi, isolandosi, rifugiandosi in relazioni virtuali o nel dialogo con assistenti digitali», spiega lo psicologo. «Altri, invece, trasformano quel disagio in aggressività, come se la rabbia fosse l’unico modo per sentirsi ancora vivi». In entrambi i casi, è il sintomo di una perdita di fiducia collettiva, di un orizzonte che si restringe.
Cercare la calma
Però non siamo condannati a reagire sempre nello stesso modo. «Non esistono ricette miracolose», avverte Gallese, «ma esistono risorse che possono aiutarci a non diventare aggressivi o a esserlo di meno». La prima è riconoscere l’altro come “altro”, non come uno specchio in cui cercare il riflesso di noi stessi.
«Viviamo in una società narcisistica, dove prevale l’idea che il mondo debba rimandare solo la nostra immagine», spiega Gallese. «Imparare a vedere l’altro per ciò che è, accettandone la diversità, è già un passo decisivo. Saper ascoltare, restare in silenzio, accogliere la parola altrui: sembrano regole banali, ma oggi sono vere pratiche di igiene emotiva collettiva».
La relazione non è un accessorio della vita psichica: è la sua base biologica. Senza l’altro non sopravviviamo. Nasciamo nel corpo dell’altro, cresciamo grazie alle sue cure, impariamo attraverso il suo sguardo.
La cooperazione, più che la competizione, è ciò che ci ha permesso di sopravvivere come specie. «Durante una delle grandi glaciazioni, l’umanità si era ridotta a poche migliaia di individui, meno dei panda di oggi», racconta Gallese. «Non ci siamo estinti perché abbiamo saputo collaborare, prenderci cura, creare alleanze. È questa la nostra vera forza evolutiva».
Cambiare a qualunque età
Riconoscere l’altro non significa idealizzare l’umano. «La violenza è tanto umana quanto la gentilezza e la cooperazione», ricorda Gallese. «L’importante è coltivare il lato relazionale, quello che ci mantiene in equilibrio».
Un ruolo decisivo spetta all’educazione. Secondo la psicoterapeuta tedesca Almut Schmale-Riedel, il rapporto con la rabbia dipende anche da come i genitori ci hanno insegnato ad accettarla ed esprimerla. Ignorare un bambino in preda a una crisi d’ira equivale, per lui, a una minaccia di abbandono: «Se mi arrabbio, non mi vogliono più». Così molti imparano presto a reprimere la rabbia o a spostarla altrove, finché non riemerge più tardi in esplosioni improvvise o comportamenti aggressivi – alzare la voce, minacciare, rompere oggetti, guidare in modo pericoloso – fino a sfociare, nei casi estremi, nella violenza vera e propria.
Ma non è mai troppo tardi per cambiare. «Le neuroscienze ci dicono che il cervello è plastico: cambia, si adatta, impara», spiega il docente. È su questa capacità che si fondano educazione e psicoterapia: anche da adulti possiamo conoscere meglio noi stessi e imparare a regolare le emozioni, perché la calma non è un dono innato, ma una conquista quotidiana. «Siamo tutti vulnerabili», conclude Gallese. «Basta una giornata storta per accendere la miccia. Ma ricordarsi che non siamo soli, che viviamo grazie agli altri e con gli altri, è il modo migliore per disinnescare la rabbia. Il dialogo resta l’antidoto più potente alla clava».
L’energia che costruisce
La rabbia può diventare un’energia che costruisce, non che distrugge. Ecco come farlo.
• Osserviamo la nostra vita. Riconosciamo i modelli relazionali che ci fanno soffrire: le arrabbiature frequenti possono essere segnali di un cambiamento necessario. Un percorso terapeutico può aiutarci a trasformarle.
• Aumentiamo la consapevolezza. Di fronte a ciò che ci irrita, chiediamoci: perché reagiamo così? Cosa ci sta comunicando questa emozione? L’introspezione e la meditazione aiutano a comprenderlo.
• Riconosciamo i déjà-vu. Se la rabbia esplode sempre negli stessi contesti, è probabile che tocchi ferite antiche o bisogni non riconosciuti: capirlo è il primo passo per cambiare.
• Prendiamo tempo. Quando sentiamo montare l’ira, allontaniamoci, respiriamo, camminiamo. La rabbia è come la polvere da sparo: se la lasciamo bruciare all’aria, si spegne; se la comprimiamo, esplode. Imparare a darle spazio è il segreto della calma e della longevità.











