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Sembra fantascienza, ma non lo è. Per accorgersene basta entrare nella palestra riabilitativa del Centro Santa Maria della Provvidenza di Roma. Qui campeggiano ovunque robot e schermi e la tecnologia avanzata è la chiave per raddoppiare, a volte quadruplicare l’efficacia dei trattamenti per migliorare la mobilità degli arti e di tutto il corpo nello spazio.
Dimenticate la fisioterapia di una volta. Nella palestra si vedono anziani che non riescono più a camminare bene perché hanno subito un ictus o un infarto, giovani reduci da incidenti stradali con il braccio danneggiato, persone a cui è stato diagnosticato un Parkinson che rende incerta la postura. Sempre, questi pazienti sono accompagnati da macchinari che li sostengono nel recupero delle funzioni perdute. Come se potessero contare su infermieri personalizzati e dalla tempra, appunto, d’acciaio.
A governare il lavoro di computer e team di specialisti è una neurologa, Irene Aprile, una delle più grandi esperte italiane di robotica in medicina, con circa 190 pubblicazioni scientifiche apparse sulle più prestigiose riviste internazionali. Oggi dirige il dipartimento di Riabilitazione neuromotoria della Fondazione Don Carlo Gnocchi, di cui l’istituto capitolino Santa Maria della Provvidenza fa parte. «Stiamo facendo una rivoluzione, ma la grande conquista avverrà quando vedremo robot nei centri riabilitativi del Paese, quando a tutti sarà data la possibilità di superare una disabilità», dice.
Dottoressa, lei crede nel futuro della robotica per rendere più democratica la riabilitazione?
«Esatto, l’uso dei robot ci permette di ampliare le potenzialità della medicina, di estendere le cure in modo democratico. Per me riabilitare una persona è restituirle le sue opportunità. È darle la possibilità di superare i limiti motori, sensoriali e cognitivi e, in alcuni casi, riuscire a restituirle la condizione precedente all’evento che ha determinato il danno».
Riguarda molte persone?
«L’Organizzazione mondiale della sanità dichiara che una persona su tre al mondo ha bisogno di riabilitazione. Sono numeri altissimi, che dimostrano come sia indispensabile investire in questo ambito. Nelle fasi acute siamo molto bravi, quando però il paziente esce dall’ospedale e torna a casa, allora la nostra assistenza è carente. È lì che dobbiamo migliorare, nella gestione delle cronicità».
Si scava un abisso sociale tra chi può permettersi di pagare i trattamenti e chi no…
«La riabilitazione è un diritto e per questo dico che dovrebbe essere democratica, per offrire a ciascuno una vita degna delle proprie potenzialità».
I macchinari al momento dove si trovano?
«Oggi i robot e le strumentazioni tecnologiche sono disponibili prevalentemente nei centri di eccellenza. L’obiettivo che ci proponiamo è che in futuro si possano distribuire a tutti dispositivi utilizzabili anche a domicilio. Ma noi alla Don Gnocchi andiamo già a casa delle persone grazie alla tecnologia…».
Fate la teleriabilitazione?
«Esatto, dal 2020, e in questo siamo stati antesignani in Italia. Andare a casa delle persone significa garantire a tutti la possibilità di cura. Durante la pandemia Covid, grazie alla tecnologia abbiamo avuto la possibilità di raggiungere il paziente a chilometri di distanza dagli ospedali, così hanno potuto proseguire la riabilitazione fisica o respiratoria».
Come funziona la riabilitazione a distanza?
«Il terapista, dalla sua postazione al Centro di riabilitazione, videochiama il paziente (o in simultanea due pazienti), controlla e corregge i suoi movimenti, visualizza i parametri vitali. Il paziente da casa propria esegue il programma riabilitativo e comunica con il terapista attraverso il collegamento audio-video».
Quali sono i vantaggi del servizio?
Il paziente esce dall’ospedale ma viene garantita la continuità di cura. Si riducono le liste attesa, si annullano le distanze, si misura attraverso la strumentazione in maniera oggettiva l’efficacia del trattamento. La Fondazione Don Gnocchi si sta impegnando per rendere il servizio accessibile al maggior numero di persone. In futuro ad andare nelle case dovrebbero essere anche i robot».
Perché un robot è d’aiuto? Può fare un esempio?
«Con il robot io riesco a far muovere un arto che non riesce più a eseguire quel movimento e riesco a farlo con un’intensità che posso modulare. Do una quantità di assistenza che è quella di cui il paziente necessita, incrementando l’attività nel tempo in maniera personalizzata. Nel frattempo, i muscoli del paziente recuperano e la riabilitazione è più semplice e più efficace».
Chi non riesce a camminare?
«Il sistema robotico può fare eseguire alla persona un training meno traumatico e meno rischioso rispetto a quello che può fare un terapista che deve sostenere con le sue braccia il paziente. Il macchinario non solo esclude il peso del corpo, che in quel momento è un problema, ma aiuta nel movimento degli arti inferiori in modo simmetrico e modulato. Ci sono anche degli strumenti molto avanzati che allenano a fare le scale in discesa e in salita».
Lo sviluppo dell’intelligenza artificiale ha accelerato le possibilità della robotica?
«Indubbiamente. All’inizio, nelle loro prime applicazioni, i robot venivano utilizzati nella riabilitazione esclusivamente per aumentare l’intensità dei trattamenti e quindi il numero di ripetizioni dei movimenti. Negli ultimi anni abbiamo assistito a un’evoluzione di tutte le tecnologie digitali. Nel nostro caso, penso agli scenari immersivi creati dalla realtà virtuale. Un paziente può fare una passeggiata in un finto parco, in un lungomare riprodotto in una realtà virtuale. Questo stimola le aree cerebrali. Noi clinici abbiamo capito che il processo di recupero del movimento funziona meglio se gli esercizi vengono svolti con attenzione, partecipazione e consapevolezza».


La neurologa Irene Aprile sorveglia la terapia: il dispositivo avvolge le braccia del paziente, guidandolo in movimenti che riproducono sullo schermo di fronte situazioni della vita quotidiana, grazie a un sistema di realtà virtuale (foto di Luigi Narici).
I computer creano i protocolli di cura?
«La tecnologia ci permette di misurare in modo oggettivo il lavoro svolto dal paziente, perché valuta e archivia parametri molto importanti, come velocità e fluidità, potenza, estensione e ampiezza del movimento. Offre la possibilità di definire un protocollo di trattamento standard, ma se vogliamo anche personalizzabile sulle caratteristiche del singolo».
Dottoressa, lei si occupa anche di riabilomica. Che cosa vuol dire?
«La riabilomica è un termine nuovo che riunisce riabilitazione e dati omici. Mi spiego meglio. Le scienze omiche sono quelle discipline che usano tecniche avanzate di analisi con la produzione notevole di dati: si va dalla genomica, che studia il Dna, alla trascrittomica, che si occupa degli Rna messaggero, dalla proteomica, che vaglia l’insieme di proteine, all’epigenomica, che convoglia le informazioni sull’influenza che l’ambiente ha sul genoma. L’intelligenza artificiale offre la possibilità di unire informazioni cliniche e biologiche non solo del singolo paziente, ma anche dei pazienti di tanti centri diversi, consentendo di creare volumi di dati statisticamente significativi. Questa totalità dei dati è utilissima per il trattamento di riabilitazione».
In che modo?
«Perché persone con le stesse caratteristiche fisiche, la stessa patologia e lo stesso trattamento riabilitativo identici, rispondono in maniera così diversa? Perché un paziente recupera, mentre un altro no? La spiegazione può essere nel Dna: per esempio, alcuni geni coinvolti nelle modifiche a livello dei neuroni, possono influenzare la riabilitazione dopo un ictus. Oppure può dipendere dall’epigenetica, cioè da come il parco chimico intorno al Dna accende o spegne determinati geni. Se noi abbiamo un quadro completo, possiamo puntare su una cura su misura».
Chi ha avuto una grave lesione alla spina dorsale potrà tornare a camminare?
«In realtà, è possibile già adesso, grazie agli esoscheletri indossabili. Si tratta di dispositivi che, però, hanno ancora dei limiti, come il peso e la durata delle batterie, ma si sta lavorando per riuscire a superarli in tempi brevi».


Un esoscheletro del Centro romano della Fondazione Don Gnocchi: questo macchinario permette a persone con lesioni midollari di stare in posizione eretta e camminare (foto di Luigi Narici).
La tecnologia è impiegata anche per il recupero delle funzioni cognitive nel Parkinson, vero?
«Assolutamente sì. Il paziente si immerge negli scenari creati in una realtà virtuale, indossando dei visori. Vengono stimolate così così l’attenzione, la memoria e la capacità di eseguire movimenti complessi. La robotica intercetta non soltanto le abilità motorie, ma anche quelle cognitive e sensoriali dei pazienti».
È necessario unire la clinica alla ricerca?
«Non avrei potuto rinunciare né all’attività clinica né alla ricerca. Io lavoro da 24 anni in Fondazione Don Gnocchi, che mi ha concesso gli strumenti e le risorse. Siamo un grande gruppo composto da neuropsicologi, fisioterapisti, bioingegneri, nutrizionisti, fisioterapisti… Perché la ricerca si fa sempre in gruppo, attraverso un vero lavoro di squadra».
A quali progetti di ricerca sta lavorando?
«Coordino la Mission 1 del progetto Fit for medical robotics, finanziato nell’ambito del Pnrr dal ministero dell’Università e della ricerca. Uno degli obiettivi di questo progetto è favorire l’introduzione delle tecnologie e dei robot nelle palestre riabilitative, non soltanto nei centri di ricerca, e favorire la progettazione dei robot del futuro, che rispondono ai bisogni di pazienti e operatori, attraverso una collaborazione fattiva tra ingegneri e clinici».
Lei è direttrice di dipartimento. C’è ancora molto da fare per superare il gap di genere?
«Le donne sono ancora poco rappresentate, soprattutto nei ruoli apicali. Bisogna cambiare le coscienze delle nuove generazioni, avendo un po’ di coraggio anche a livello politico. E bisogna cambiare la mentalità. A un primario non si chiederebbe mai se ha dovuto sacrificare la sua famiglia per la professione, a me viene fatta la domanda».
E lei che cosa risponde?
«Che ho compiuto sacrifici ma che ho cercato di essere per i miei figli un esempio di una persona che fa con passione il proprio lavoro. Diventeranno medici anche loro: Alice concluderà quest’anno la facoltà di Medicina e Lorenzo l’ha iniziata».
Una famiglia di medici…
«Anche mio marito lo è medico: chirurgo oncologo».
Lei aveva questa passione fin da piccola?
«Avevo le idee chiare: sognavo di fare il medico».•