Niente succede per caso. Mi piace questa frase, perché credo che la vita sia una collana di eventi dove ogni perla segue l’altra con una precisa logica. Me ne sono accorta con la mia malattia. Paradossalmente, è grazie alla mia “compagna di viaggio” se ho vissuto certe esperienze e ho capito meglio me stessa e gli altri. Forse, se non mi fossi ammalata, tante cose non sarebbero mai accadute.
Tutto è iniziato a settembre 2013: avevo compiuto da poco 11 anni quando mi è stata diagnosticata la malattia di Werl­hof, o porpora trombocitopenica idiopatica (Pti), una rara patologia autoimmune dove il fegato e la milza entrano in conflitto, senza un vero motivo, e producono degli anticorpi che distruggono le piastrine nel sangue.

Salute e medicina

Come si cura la porpora trombocitopenica idiopatica

Come si cura la porpora trombocitopenica idiopatica
Come si cura la porpora trombocitopenica idiopatica

I primi sintomi erano cominciati cinque settimane prima: sulla pelle erano comparsi dei puntini rossi, che in gergo medico si chiamano petecchie, oltre a lividi molto grandi e scuri che faticavano a guarire. All’inizio, a casa, non ci avevamo fatto troppo caso: ho un fratello più piccolo di sei anni ed era normale giocare con lui, rincorrerci e cadere. Davamo la colpa a quello.

La strana macchia sulla pancia
Il campanello di allarme si è acceso a fine agosto. Ero andata alla festa di paese, dove c’era il classico luna park: dopo un giro sulle giostre, mia mamma ha notato un livido enorme sulla mia pancia. Si è preoccupata e il giorno dopo mi ha portata dal pediatra, che mi ha prescritto un normale emocromo. È emerso un valore delle piastrine troppo basso: 13.000 unità per microlitro di sangue, mentre la conta è normalmente compresa tra 150.000 e 450.000. Sono subito stata indirizzata all’ospedale San Gerardo di Monza, dove sono tuttora in cura, e lì ho conosciuto un bravissimo oncoematologo, Marco Spinelli. Nel giro di tre giorni, mi ha fissato il prelievo di midollo osseo e dopo un paio di ore è già arrivato il verdetto. Lo ricordo come se fosse ieri: ero seduta in braccio a mamma, papà accanto a noi. Senza troppi giri di parole, ma con delicatezza, Spinelli ci ha parlato della patologia autoimmune e mi ha spiegato cosa stava accadendo nel mio corpo. Per stare bene e per gestire le situazioni di difficoltà, dovevo sapere e conoscere la malattia.

Vanessa Ciriaco: a 11 anni ha scoperto di avere la porpora trombocitopenica idiopatica, oggi lavora in un'agenzia di comunicazione.
Vanessa Ciriaco: a 11 anni ha scoperto di avere la porpora trombocitopenica idiopatica, oggi lavora in un'agenzia di comunicazione.

Vanessa Ciriaco vive a Limido Comasco e da settembre 2024 lavora in un'agenzia di comunicazione.

I rischi principali della porpora trombocitopenica idiopatica sono i sanguinamenti spontanei o indotti da microtraumi, che possono coinvolgere le mucose come quelle del naso o le gengive, ma anche l’apparato digerente, quello genito-urinario e, più raramente, il cervello. Ecco perché, sia in casa che fuori, devo sempre avere con me dei farmaci antiemorragici, in compressa oppure in fiale iniettabili, che mi permettono di gestire eventuali situazioni di emergenza, come un taglio o una ferita, che altrimenti impiegherebbero troppo tempo per rimarginarsi.

La crisi dopo la diagnosi
Ovvio, all’inizio non è stato facile. Ho capito che la mia vita non sarebbe più stata la stessa quando il dottore mi ha detto: «Se stai male, non devi chiamare la mamma, ma l’ambulanza». Quella frase mi ha scosso. Ero ancora piccola, ma abbastanza matura da capire che forse la situazione era grave. Per incoraggiarmi, i medici mi avevano spiegato che la Pti poteva essere acuta e risolversi da sola nell’arco di un anno. Altrimenti, trascorso quel periodo, mi avrebbe accompagnata per tutta la vita. Non so perché, ma ho subito sentito che quella malattia sarebbe rimasta con me per sempre: ci sono giorni in cui è più capricciosa, altri in cui è meno invadente. Io cerco di rendermela amica, anche perché arrabbiarsi con lei non la farebbe comunque allontanare.

L’unico momento di crisi l’ho vissuto subito dopo la diagnosi, quando per un mese ho assunto il cortisone per tentare di bloccare gli anticorpi che distruggevano le mie piastrine. Ho manifestato tutti gli effetti collaterali possibili, a fronte di nessun beneficio. Sospesa quella cura, mi hanno somministrato delle immunoglobuline per via endovenosa, sempre con l’obiettivo di ridurre l’attività del sistema immunitario, ma le ho rigettate. Sono stata davvero male. Credo che quello sia stato il momento peggiore.

«Le tre cose che non devo fare»
Visti quei fallimenti terapeutici, i medici mi hanno sconsigliato l’assunzione di ulteriori farmaci per stimolare la produzione di piastrine nel midollo osseo, perché ho una buona qualità di vita e al momento posso tenermi monitorata con degli esami del sangue periodici.
Ci sono solamente tre cose che non posso fare, proprio per evitare sanguinamenti spontanei. Non posso assumere farmaci antinfiammatori non steroidei, come ibuprofene, diclofenac o ketoprofene, più noti come Fans; non posso praticare sport di contatto, come judo e karate; non posso superare i 2.000 metri di altezza, per cui evito le gite in alta montagna. Per il resto, posso fare tutto.
Ovvio, i lividi e le petecchie compaiono tutti i giorni, anche se ci sono periodi migliori di altri, e soffro della cosiddetta fatigue, una sensazione di stanchezza costante che fa parte del “pacchetto”: nel tempo ho imparato a dosare le mie energie, riposando prima degli impegni, non tirando mai la corda e accettando che non posso sempre fare quello che vorrei.
A volte la mia mente viaggia ai cento all’ora, ma il mio corpo fatica a ingranare la prima. Oggi so trovare un equilibrio.

«Non mi vergogno di parlarne»
Non mi sono mai vergognata di parlarne con gli altri. Ho scoperto di essere malata a pochi giorni dalla prima media e l’ho subito raccontato ai miei nuovi compagni e professori. L’unico scoglio che ho dovuto superare sono gli sguardi indagatori e i commenti poco delicati di alcune persone, perché in un mondo basato sull’esteriorità i lividi possono diventare uno stigma sociale, che attira l’attenzione. Ho imparato che è inutile confrontarsi con persone che non sanno andare al di là delle apparenze: le “imperfezioni” sono solamente una delle tante sfaccettature della vita, che nel complesso sa essere meravigliosa.
Nonostante tutto, sono grata alla mia malattia perché mi ha fatto scoprire di avere carattere: dicono che non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica scelta che hai. È proprio così. Prima della diagnosi non mi era mai servito avere grinta ed essere combattiva, ma quando è stato necessario ho capito che non mi abbatto facilmente.

«Il sole continua a splendere»
La mia esperienza personale mi ha insegnato che dobbiamo sempre ascoltare il nostro corpo, prestare attenzione ai segnali che ci manda, fare prevenzione e affidarci ai medici giusti se scopriamo che qualcosa non va. Ma soprattutto dobbiamo amarci: il mio è stato un percorso in crescita, dove sono stata aiutata anche da una psicologa. Grazie a lei ho imparato a vedere il bicchiere mezzo pieno anche in me stessa, non solo negli altri, e ad apprezzare il mio corpo con le sue esigenze particolari.
Oggi sono una ragazza come tutte le mie coetanee: amo viaggiare, esco con le amiche e mi piacciono le serie televisive come La casa di carta, che guarderei all’infinito. Sono anche un’appassionata di Formula 1: seguo prove libere, qualifiche, gare. Per motivi di lavoro, ho anche conosciuto Charles Leclerc e mi sono presentata: sono stati i 15 secondi più emozionanti della mia vita. È lui il mio pilota preferito, ma in generale tifo per la Ferrari.
Un po’ come in pista, anche la mia patologia è una sfida continua, ma credo che oggigiorno una persona malata possa e debba vivere senza aver paura di confessare il proprio malessere e all’insegna della libertà. C’è sempre un lato positivo da vedere: anche un problema di salute come il mio può diventare fonte di riflessione e magari ispirare altre persone a rialzare lo sguardo verso l’alto. Il sole continua a splendere.

 

Testimonianza raccolta da Paola Rinaldi