L’ananas parla italiano. Ma anche la papaya, il mango, l’avocado e la banana. Sempre più frutti tropicali vengono commercializzati con l’etichetta “made in Italy”. E da qualche anno stanno aumentando persino le piantagioni di tè nostrano, che fanno concorrenza agli orientali. «Le novità in tavola sono un segno tangibile dei cambiamenti climatici, che stanno influenzando le linee di coltivazione in diverse parti del mondo», spiega Mario Pezzotti, professore ordinario di Genetica agraria presso l’Università degli Studi di Verona, già commissario straordinario del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) e dirigente del Centro ricerca e innovazione della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige, Trento. «A causa dell’aumento delle temperature, delle variazioni nelle precipitazioni e di eventi meteorologici estremi, molte aree che tradizionalmente erano adatte per la coltivazione di determinate colture potrebbero diventare meno favorevoli. Al contrario, zone che prima non erano ideali per l’agricoltura sarebbero più idonee a causa di un clima più mite».

Mario Pezzotti, professore ordinario di Genetica agraria presso l’Università degli Studi di Verona, già commissario straordinario del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) e dirigente del Centro ricerca e innovazione della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (Trento)
Mario Pezzotti, professore ordinario di Genetica agraria presso l’Università degli Studi di Verona, già commissario straordinario del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) e dirigente del Centro ricerca e innovazione della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (Trento)

Mario Pezzotti, professore ordinario di Genetica agraria presso l’Università degli Studi di Verona, già commissario straordinario del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) e dirigente del Centro ricerca e innovazione della Fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (Trento)

Professor Pezzotti, questo significa che al Sud e nelle isole troveremo sempre più frutti tropicali, che magari andranno a sostituire agrumi e altre tipicità nostrane?
«In realtà, le piante che consideriamo tradizionali arrivano già da altre parti del mondo. Ogni specie vegetale ha un’area geografica di provenienza, chiamata centro di origine, dove si è sviluppata naturalmente prima di essere introdotta e coltivata altrove. L’Italia non è un centro di origine per la maggior parte delle colture che conosciamo oggi».

Si pensi al pomodoro, che domina su pasta e pizza…
«Arriva dal centro-sud America, come i fagioli».

Ma il basilico, orgoglio dei genovesi?
«È nato in Asia».

Il discorso vale per tutto quello che mangiamo in Italia?
«In pratica, sì. La melanzana proviene dall’India, la patata dal sud America, il limone dall’India, il frumento da un’ampia regione fra l’Iran e l’Iraq. Addirittura, il mais utilizzato per preparare la polenta è originario dell’America centrale: eppure si usa ironicamente il termine “polentoni” per riferirsi a lombardi, veneti o trentini, storici consumatori di polenta».

Non esistono frutti o verdure nostrani da generazioni?
«Il carciofo, originario della regione del Mediterraneo. Si ritiene che probabilmente sia stato domesticato da Greci o Romani, che lo coltivavano in Sicilia e in altre parti del Mediterraneo».

Quando sono arrivate da noi le altre specie tipiche della dieta mediterranea?
«Negli ultimi duemila anni, attraverso scambi commerciali, colonizzazione e migrazioni. Grazie al suo clima mite, alla geografia variegata e alla buona disponibilità di risorse idriche, l’Italia è riuscita a importare tante specie vegetali, distribuendole lungo le regioni in funzione dei vari climi e microclimi. Adesso, però, il riscaldamento globale sta cambiando le carte in tavola: l’aumento delle temperature medie e gli eventi meteorologici sempre più estremi, con la concentrazione delle piogge in brevi periodi, stanno costringendo gli agricoltori a rivedere pratiche e scelte colturali. Così stanno arrivando i frutti tropicali, che prima da noi non potevano crescere a causa delle basse temperature in inverno».

Coltivare uva in Italia diventerà più complicato?
«I processi di maturazione delle uve potrebbero diventare più rapidi e anticipati, con il rischio di compromettere la qualità del vino. Per questo motivo, si stanno impiantando i primi vigneti in Paesi come l’Inghilterra e la Svezia, dove il clima sta diventando più favorevole alla viticoltura. Sì, è possibile che la coltivazione della vite si sposterà verso il nord Europa».

Significa che qualcosa è destinato a sparire dalle nostre tavole?
«Potenzialmente, le carenze idriche prolungate a cui stiamo assistendo potrebbero portare alla completa distruzione di qualsiasi pianta. La sfida del futuro sarà quella di raccogliere e gestire l’acqua piovana, utilizzandola come risorsa di soccorso nei periodi di siccità. E poi bisognerà migliorare le specie in modo da renderle più resistenti alle nuove condizioni climatiche».

Cosa significa?
«Le piante dovranno essere sottoposte a interventi di innovazione genetica. Non parliamo di Ogm. Si tratta di mutazione di precisione, cioè dell’incorporazione di geni provenienti da specie sessualmente compatibili: realizzata in laboratorio, combina dei tratti genetici per ottenere una nuova pianta con caratteristiche utili e in modo che resista meglio al caldo, alla scarsità d’acqua o ai parassiti sempre più aggressivi a causa degli inverni miti. Per esempio, se c’è una specie selvatica sessualmente compatibile con la melanzana che resiste alla siccità, tramite incrocio o con la mutagenesi di precisione verrà utilizzata per conferire alla melanzana coltivata le caratteristiche di resilienza alla siccità e resistenza ai parassiti. Ma questo gli agricoltori lo fanno da sempre: per esempio, il pomodoro da industria non è quello che cresce nell’orto domestico, perché è stato selezionato per avere caratteristiche che lo rendano adatto alla raccolta meccanica e che garantiscano una produzione massiccia e costante».

Questi incroci possono alterare la qualità dei prodotti?
«No, assolutamente. Se un giorno volessimo preservare dalla siccità il radicchio trevigiano, faremmo in modo di attribuirgli più resilienza, ma senza cambiarne le caratteristiche nutrizionali e organolettiche. La nostra tradizione gastronomica non risentirà di queste innovazioni. Anzi, tutto questo servirà a conservare la biodiversità delle specie agrarie che ben si sono adattate ai nostri climi. E poi ci sono già i biostimolanti, da usare sulle piante o nel terreno: sono molecole naturali e innocue per la salute che rendono le varie specie più resistenti agli attacchi dei parassiti e, in qualche modo, anche alla siccità».

Queste innovazioni tecnologiche saranno a disposizione di tutti, anche di chi vuole coltivare un fazzoletto di terra vicino a casa?
«Certo, a patto che ci si attrezzi anche sul fronte idrico. Magari si potrebbe prevedere un impianto per l’irrigazione a goccia, che fornisce l’acqua direttamente alle radici delle piante in piccole quantità, riducendo al minimo lo spreco e l’evaporazione. L’acqua diventerà un bene sempre più limitato nei prossimi anni e chi vorrà avere un orto dovrà usarla in maniera oculata».

In definitiva, la dieta mediterranea potrebbe cambiare per colpa del clima?
«Più che cambiare, si arricchirà di nuovi prodotti. Magari al bar sotto casa troveremo sempre più spesso insalatone arricchite con l’avocado, ma per il resto continueremo a seguire la nostra dieta abituale e non dovremo rinunciare ai piatti della nonna».