Il nutrizionista Stefano Vendrame, che insegna all’Università Cattolica, ha partecipato a Bookcity, la grande rassegna milanese dedicata ai libri. È stato invitato a presentare il suo saggio recente, Carnivori o vegani? (Longanesi), nel percorso tematico “Le parole della cura”, organizzato da quattro anni al Museo della Scienza dalla direttrice di Ben­Essere Eliana Liotta (con il contributo non condizionante di Recordati). Ecco uno stralcio della loro conversazione, raccolto da Marianna Corte.

Stefano Vendrame, nel suo libro scrive che non siamo del tutto carnivori e nemmeno erbivori, ma onnivori opportunisti. Che cosa intende?
«Ci siamo adattati a mangiare sia alimenti vegetali sia alimenti animali e questo è stato fondamentale nella storia evolutiva degli esseri umani. Abbiamo imparato ad arrangiarci con quello che c’era. Non siamo mai stati vegani completamente anche quando non andavamo a caccia».

Non siamo veri predatori…
«Andare a caccia non è una cosa che ci viene per natura. Abbiamo avuto bisogno di una evoluzione culturale, di strumentazioni per organizzarci per poter dare la caccia ai bisonti o ai mammuth. Prima i nostri antenati comunque non erano erbivori. Mangiavano larve, poi insetti, poi piccoli animaletti o magari molluschi che erano molto abbondanti e si riescono a raccogliere anche a mani nude. Un po’ di proteine animali le abbiamo sempre mangiate. Tra l’altro, anche se non riuscivamo ad andare a caccia arrivavano a noi gli ultimi scampoli di una gazzella ammazzata da un leone. Con i nostri pollici opponibili riuscivamo ad aprire le ossa per succhiare il midollo».

Che cibo è stato predominante nella nostra storia evolutiva?
«Eravamo raccoglitori. Camminavamo per miglia ogni giorno alla ricerca di quello che c’era: radici, tuberi, bacche, frutta… Tutto questo nostro adattamento al cibo ci ha permesso di prosperare come specie e soprattutto ha fatto sì che oggi la nostra alimentazione migliore sia quella più varia possibile. Non siamo come il koala che mangia eucalipto e basta, non c’è un alimento solo che soddisfi tutti i requisiti nutrizionali. Più mangiamo una varietà di cibi, maggiori saranno le nostre chance di assumere i nutrienti che ci servono».

Lei invita a considerare i molluschi alimenti di tutto rispetto.
«Sappiamo anche che i nostri antenati hanno sempre vissuto in prossimità dei corsi d’acqua o delle coste. Ebbene, i due prodotti ittici in assoluto più ricchi di omega-3, indispensabile per il nostro cervello, sono il pesce azzurro e i molluschi. Si dà il caso che questi ultimi siano, rispetto al pesce, estremamente più facili da raccogliere, anche a mani nude. Molti ricercatori ipotizzano che sia proprio a cozze, vongole, ostriche e simili che l’uomo debba il salto di livello delle sue facoltà mentali e delle sue capacità di pensiero e ragionamento complessi, assolutamente unici nel regno animale. Questa ipotesi spiegherebbe inoltre perché abbiamo ereditato anche un fabbisogno relativamente elevato di iodio, elemento pressoché assente in animali e vegetali terrestri».

Il mondo dell’alimentazione non sfugge alla polarizzazione. Lei descrive nel suo libro la bagarre ideologica che contrappone le fazioni dei nazi-vegani e dei nazi-carnivori.
«Sono fazioni più interessate allo scontro che non al confronto. Diciamo che per voler avere ragione a tutti i costi tendono a piegare le evidenze scientifiche in loro favore, trovando sempre qualcosa da sbandierare come l’ultimo studio che ci dà ragione. Poi magari ce ne sono altri 999 che dicono l’opposto… Un approccio che io chiamo “scienza à la carte”, cioè uso solo le ricerche che mi fanno comodo e le altre le dimentico. I nazi-vegani sono individui dogmatici e fondamentalisti e non c’entrano nulla con i pacifici vegani che compiono serenamente le proprie scelte, basate su motivi etici, filosofici, religiosi, di sostenibilità ambientale o salutistici ma sempre nel rispetto delle preferenze altrui. Nella squadra opposta troviamo i nazi-carnivori, cioè gli estremisti di diete paleolitiche, chetogeniche o carnivore. Loro dipingono i vegani come molluschi privi di massa muscolare per via di un’insufficienza cronica di proteine e li scherniscono quali individui perennemente deboli e malaticci».

Per dimostrare che hanno torto entrambi, lei cita la prova evolutiva dell’intestino.
«I carnivori osservano che abbiamo un intestino relativamente corto, che è quello che in natura è più tipico dei predatori, perché i predatori carnivori mangiano carne, ma nella carne non c’è fibra e perciò i nutrienti si assorbono velocemente. Ma il nostro intestino non è così corto come quello di una tigre o di un leone. Al contrario i vegani osservano che abbiamo un intestino un po’ più lungo che serve per avere il tempo di estrarre energia dalla fibra, tipico adattamento degli erbivori. Anche in questo caso però possiamo osservare che noi non abbiamo lo stesso tratto intestinale di una mucca».

Se noi mangiamo solo carne e trascuriamo i carboidrati ne risente il cervello, come scrive in un focus del suo libro.
«Se noi mangiamo pochissimi carboidrati, il cervello si vede costretto a ridurre la quota di energia che ricava dal glucosio. Non può però in nessun caso azzerarla. L’organismo allora comincia a costruirsi glucosio per conto suo, e l’unico modo che ha per farlo è smontare le proteine, attraverso il processo chiamato gluconeogenesi. Si tratta di una soluzione emergenziale che gli costa molto cara, per cui tutti gli organi si devono adattare, cervello incluso. La restante parte della sua spesa energetica (fino al 75%), la può coprire con un piano di riserva: utilizza alcuni acidi ricavati dai lipidi, chiamati corpi chetonici».

Questo stato metabolico si chiama chetosi. Quando genera risposte vantaggiose e quando può essere nocivo?
«La dieta chetogenica viene usata come un farmaco nei casi di epilessia. Mantenuto per brevi periodi, poi, uno stato di chetosi può aiutare nella perdita di peso, perché l’utilizzo dei chetoni come fonte energetica è molto inefficiente e comporta un maggiore sperpero energetico: una situazione desiderabile quando si vuole dimagrire in fretta. Sicuramente, però, uno stato perenne di chetosi non è affatto positivo nel lungo termine per un organismo sano, perché lo impegna costantemente in un lavoro metabolico supplementare che lo distoglie da altri compiti ordinari, come la sorveglianza tumorale, la funzione immunitaria o la riparazione dei tessuti danneggiati. Inoltre, il carico aggiuntivo di sostanze di scarto da smaltire e di stress ossidativo associato a qualunque attività catabolica accelera il danneggiamento e l’invecchiamento di organi e tessuti».

Chi segue diete che eliminano del tutto i carboidrati riferisce di una maggiore lucidità mentale. Come mai?
«Questa percezione di vigore e acutezza mentale è del tutto illusoria: un tentativo emergenziale dell’organismo per indurci a sopravvivere. La realtà oggettiva è invece che, in uno stato di chetosi, i tempi di reazione sono rallentati (il cervello con meno glucosio è più lento), e si è maggiormente soggetti a confusione, irritabilità e sbalzi di umore».

Ci dà un’idea di un bel pranzo vegano che possono sperimentare tutti?
«Immaginate un piatto, dividetelo in quattro. In due di queste sezioni ci mettiamo della verdura, cruda, cotta o fermentata; nell’altro quarto mettiamo un cerale integrale, in particolare quelli in chicco, cioè il farro o l’orzo, e nell’altro riquadro mettiamo le proteine, che nel caso della dieta vegana sono i legumi. Se la dieta è vegetariana, inseriamo le uova, se pesco-vegetariana il pesce azzurro».