Io mi aiuto, aiutando. Sono in carcere da otto anni come volontaria penitenziaria, per sei anni nella Casa di Reclusione di Opera, alle porte di Milano, da due nella Casa Circondariale di Regina Coeli, a Roma. Dietro le sbarre, ho scoperto le persone nella loro verità, nella loro essenza, ma anche nella loro parte peggiore, quella bestiale, non lo nego. Tuttavia, per chi crede come me, l’uomo non è il suo peccato né il suo reato: è figlio di Dio. Sempre.
In carcere impari a sospendere il giudizio. Non perché alcune azioni non sia­no oggettivamente da condannare o perché noi volontari - come a volte ci accusano - ci occupiamo degli autori dei reati e non delle vittime, anzi. Ma perché noi non siamo giudici, non siamo agenti: a noi viene chiesto solo (solo?) di amare, di metterci in gioco, di impegnarci in prima persona, di fare un tratto di strada con uomini e donne che hanno sbagliato e che, spesso, lo hanno fatto non per cattiveria, ma per povertà economica, culturale, sociale, spirituale.

Etica e ben essere

La rieducazione dei detenuti ha basi neurologiche

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Tra sbarre e blindi, c’è un’umanità varia e sofferente che è inciampata, ma che può essere aiutata a risollevarsi. A Milano ho conosciuto uomini condannati per reati associativi (mafia, camorra, ‘ndrangheta…) che, dopo 27 anni di carcere, sono cambiati e hanno iniziato una nuova vita. Ho parlato con stragisti, che hanno ritrovato la fede. Ho frequentato giovani che hanno ucciso e che, con responsabilità e pazienza, hanno ricostruito se stessi. E ogni volta che qualcuno ce la fa è una gioia immensa, per tutti. Del resto, la nostra Costituzione è chiara: il fine della pena è la rieducazione.

Le ostie dei detenuti
A Opera è nato un progetto unico nel suo genere: grazie alla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, presieduta e fondata da Arnoldo Mosca Mondadori, è stato allestito il laboratorio “Il senso del Pane”, per la realizzazione di particole utilizzate durante la messa. Le ostie, preparate da detenuti che scontano una pena per omicidio, vengono donate gratuitamente alle parrocchie italiane. L’idea è che mani sporche di sangue per aver ucciso “il corpo dell’uomo” realizzino, in un cammino di redenzione e riscatto sociale, quello che diventerà “il corpo di Cristo”. In questo laboratorio ho trascorso ore e ore, ad asciugare lacrime e a raccogliere sorrisi, a impastare ostie e a pregare.
A Regina Coeli, invece, mi sono imbattuta nel cosiddetto repartino, un luogo - comune, con nomi diversi, a tutte le carceri italiane - dove vengono rinchiusi coloro che hanno problemi psichiatrici. Ecco, se dovessi rappresentare l’inferno in terra, penserei al repartino, dove le persone spesso non si rendono nemmeno conto della pena che stanno scontando e, nonostante la buona volontà di operatori e medici, non vengono adeguatamente curate.
Nonostante tutte le difficoltà, posso dire che in questi anni ho ricevuto tanto: un affetto incondizionato, prima di tutto; il privilegio di aver incontrato chi mi ha regalato la propria anima - tormentata, stropicciata, rattoppata - ma comunque la parte più intima e preziosa. Certo, camminare nei corridoi delle sezioni non è piacevole: mi è capitato di vedere persone che hanno cercato di togliersi la vita, immersi in pozze di sangue. Tuttavia, questa esperienza ti costringe a guardare te stessa, oltre che gli altri. Un giorno, un ergastolano mi disse: «Noi detenuti alle botte e alle punizioni siamo abituati, ci rendono più cattivi. Ma quando mi sono imbattuto in un volontario che mi ha amato per come sono, ecco, allora ho dato una direzione diversa alla mia vita». Perché, alla fine, solo l’amore ci cambia.

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Come diventare volontari penitenziari

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