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Franz Bergonzi, architetto e designer, è stato professore incaricato alla facoltà di Design industriale del Politenico di Milano. È nato nel 1967 a Piacenza, dove lavora e vive con la moglie e la figlia.
Una domenica pomeriggio di fine agosto. Una giornata faticosa, nonostante fosse festiva.
C’è un rumore di fondo che satura il tuo cervello e lavora senza sosta né pietà. Quelle cose che senti, ma non ascolti e se non ascolti non capisci. Se non capisci non dai importanza e se non dai importanza poi non ti puoi stupire. Tutto accade in un attimo. Il cuore, che prima non avevi mai ascoltato, semmai solo sentito battere più o meno forte in funzione di uno sforzo con una logica proporzionalità, impazzisce e ti propone un ritmo irregolare fatto di salti e di impennate.
D’altronde batte mediamente 31.536.000 volte in un anno. Con un’aspettativa di vita di 80 anni fanno 2.522.880.000, due miliardi cinquecentoventidue milioni e ottocentottantamila volte. Il cuore è uno stakanovista di altissimo livello, costantemente sottovalutato, inascoltato nel suo ininterrotto lavoro vitale. Che è incredibile mi batta nel petto sin da quando stavo nella pancia di un altro essere umano sotto al suo, di cuore, che già batteva da molti anni.
Alla soglia dell’allarme rosso
Ti fermi con i sensi alla soglia dell’allarme rosso, i suoni ambientali si attutiscono sino a essere completamente sfuocati. Scompaiono. Le coordinate spazio-tempo saltano. Sei improvvisamente solo e ti ripeti che è stata un’impressione, forse hai digerito male, forse lo stomaco o l’esofago. In fondo che ne sai? È stata solo un’impressione. Adesso finisce. Ti rimetti in cammino innestando una sorta di pilota automatico, la casa è vicina e chi ti può dare una mano è a una manciata di metri.
Due passi irrigiditi perché la muscolatura è rimasta vagamente pietrificata ed ecco che ricomincia. Ca..o! Non solo è irregolare, ma sta accelerando come il motore di un’automobile guidata dall’anziano che esce da un parcheggio del supermercato.
Hai paura. Una fottutissima e inedita paura. È un infarto. Stai morendo. Nessun dubbio.
Le vertigini sono costanti
Forse capiterà qua per strada, senza essere visto, senza poter essere aiutato. La strada è vuota, come l’isolato e il quartiere. Gli occhi sono appannati e la testa gira, le vertigini sono costanti mentre, probabilmente, respiri a malapena e la voce fatica a uscire, se non per frasi sconnesse dove invochi quello che la tua cultura ti fa invocare. Ma non sai nemmeno se stai emettendo un vero suono oppure è un’inudibile voce interiore. Cerchi di raggiungere il citofono, ma è lontanissimo. Era vicino, ma è diventato lontano come l’immagine dell’oasi che tremola nell’orizzonte infuocato.
Arrivi ed emetti un soffocato: «Aprite... sto male». Il portone è pesante come fosse il caveau blindato di una banca svizzera. Lo apri. Ma devi fare le scale, devi fare ancora quello sforzo immane che darà il colpo di grazia a quel muscolo di circa 300 grammi che hai nel petto. Guardi la rampa delle scale come uno scalatore osserva una cima impossibile anche per uno stambecco dopato e ti avvii, nonostante tutto. Emerge un senso di autocontrollo, mentre sai che hai una faccia da malato terminale giunto al termine e hai definito un nuovo livello di colore della pelle: bianco assoluto. Cerchi la prima delle maschere nell’archivio «la vita è un tragicomico Carnevale» e, con uno sforzo immane, che in futuro ti sarà decisamente e sfortunatamente utile, la indossi. Dopo la penitenza delle scale eccoti dentro, nell’ingresso, ed è la prima smentita alle tue precognizioni nefaste.
Non sei morto. Finalmente puoi crollare su una poltrona. Così cominciano le domande a cui dai spiegazioni vaghe anche perché neanche tu sai cosa ti è appena successo. Poi cedi e chiedi disperatamente un dottore, un’ambulanza o una guardia. Arriva il medico che comincia ad ascoltarti, anzi auscultarti, e a dare un peso ai tuoi sintomi. Usa degli strumenti oggettivi per valutare le condizioni. Mentre ti guarda con un’espressione rassicurante le sue parole sono come una cisterna di benzodiazepine e, finalmente, capisci di averla scampata.
L’elettrocardiogramma fatto in tempo reale sul posto è normale. Tutte le espressioni dei presenti si rilassano, perché pensano a un evento una tantum. Hanno voglia di chiudere il capitolo e di rimuovere il fatto, di archiviarlo nella cartella «fatti drammatici senza seguito».
Non è stato così se ho scritto queste pagine.
Non è così se state leggendo queste pagine.
Non è un episodio unico
Il cardiologo se ne va e i parenti ci lasciano a riposare per riprenderci. La poltrona, infatti, non è più adatta per quel corpo quasi senza vita, ci vuole un divano dove stendersi e cercare di sciogliere quell’ammasso di carne congelata che siamo diventati. Perché, ricordiamolo, è agosto e fa caldo, ma abbiamo freddo, un freddo innaturale, talmente intenso che è penetrato sino nel midollo osseo. Sentiamo distintamente che il freddo divampa da ognuna delle 206 ossa dello scheletro, l’unica impalcatura rimasta in grado di non far rotolare i nostri pezzi dal divano sul pavimento.
La sensazione che non sia stato un episodio unico comincia a serpeggiare nel lobo frontale e già pensiamo a una serie di controlli medici per capirci qualcosa.
© 2025 Tea S.r.l., Milano


Il testo è tratto dal libro di Franz Bergonzi E dacci oggi il nostro panico quotidiano (TEA)











