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Manuel Cicchetti
Rallentare l’invecchiamento del cervello e la degenerazione dei neuroni attraverso un programma riabilitativo personalizzato che produca risultati tangibili e misurabili al pari di un farmaco: è questa la sfida intrapresa da Francesca Baglio, medico neurologo della Fondazione Don Carlo Gnocchi presso il Centro Santa Maria Nascente di Milano. Insieme al suo giovane team di collaboratori (una ventina tra neurologi, bioingegneri, informatici, neuropsicologi e neuroradiologi), sta applicando le più avanzate tecniche diagnostiche e di neuroimaging per scoprire come si possono modificare e potenziare le connessioni cerebrali: l’obiettivo è aiutare i pazienti colpiti da malattie neurodegenerative, gli anziani fragili con disturbi cognitivi e, in un futuro non troppo lontano, anche le persone sane che vogliono semplicemente invecchiare bene e in salute. E tra le sperimentazioni c’è anche quella a passo di danza, con il cha cha cha proposto a pazienti con sclerosi multipla e un principio di demenza.
Dottoressa Baglio, che cos’è la neuroriabilitazione?
«È un tipo di riabilitazione che si occupa del recupero funzionale di quelle persone che hanno subito danni al sistema nervoso a causa di traumi, interventi o malattie neurologiche. L’obiettivo è ripristinare le capacità motorie, sensoriali e cognitive per consentire loro di condurre una vita il più normale possibile».
Che tipo di pazienti seguite nel vostro centro?
«Nel mio percorso professionale mi sono focalizzata soprattutto su anziani fragili con disturbi cognitivi, demenze e Alzheimer, ma nei nostri ambulatori seguiamo anche pazienti con Parkinson e sclerosi multipla. Il nostro obiettivo è intervenire con la riabilitazione in modo sempre più precoce, prima che cominci la perdita dei neuroni, in modo da potenziare le funzioni cognitive e creare una “riserva” che permetta al paziente di essere più resiliente. Possiamo rinforzare le connessioni neuronali che iniziano a indebolirsi oppure, quando il danno è più avanzato, possiamo allenare il cervello a trovare strade alternative per compiere le stesse funzioni».


Francesca Baglio con i giovani ricercatori del CADiTeR, dove si uniscono studi di neuroscienze con tecnologie all’avanguardia e trattamenti innovativi di riabilitazione (foto di Mauel Cicchetti)
Come si capisce se un percorso riabilitativo funziona?
«Solitamente il paziente viene sottoposto a dei test funzionali e i risultati vengono valutati mediante delle scale scientificamente validate che permettono di misurare in maniera oggettiva i progressi fatti. Nel nostro centro stiamo provando ad andare oltre, cercando anche di capire perché la riabilitazione funziona. Dimostrarne l’efficacia è la grande sfida. Finora la ricerca scientifica ha un po’ trascurato questo aspetto: si è focalizzata più sui farmaci, lasciando la riabilitazione un po’ in disparte, come una sorta di Cenerentola. Noi vogliamo colmare questa lacuna andando a vedere quali meccanismi entrano in azione nel cervello, in modo da dare una spiegazione neuroscientifica dell’efficacia dei percorsi riabilitativi».
In che modo osservate quello che accade nel cervello?
«Uno strumento fondamentale è la risonanza magnetica, che permette di visualizzare come si rimodellano le connessioni cerebrali. A questa tecnica di neuroimaging affianchiamo poi gli esami del sangue, per misurare dei biomarcatori molecolari che riflettono i cambiamenti nella struttura e nella funzione del sistema nervoso. Facciamo molta ricerca nell’ambito della diagnostica avanzata per la personalizzazione della riabilitazione: partecipiamo anche al grande progetto Mnesys (A Multiscale iNtegratEd approach to the study of the nervous SYStem in health and disease), condotto da un partenariato esteso di neuroscienze con 25 enti, coordinato dall’Univeristà di Genova e finanziato nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza dall’Unione europea – NextGenerationEU per oltre 80 milioni di euro».
Che tipi di protocolli riabilitativi state studiando con queste tecniche diagnostiche avanzate?
«Abbiamo diverse sperimentazioni in corso: la Fondazione Don Gnocchi è nota da tempo per i suoi protocolli riabilitativi, ma ora li stiamo rendendo sempre più personalizzati e accessibili anche grazie alle nuove tecnologie digitali. Per le persone con Parkinson o sclerosi multipla, per esempio, abbiamo sviluppato un programma di teleriabilitazione che permette di fare gli esercizi comodamente a casa, attraverso un kit che si collega alla tv o al tablet: il sistema registra i movimenti del paziente e li riproduce sullo schermo attraverso un avatar, per dare un feedback sulla correttezza degli esercizi. Una volta alla settimana, poi, le attività vengono seguite in diretta dai nostri operatori collegati da remoto, per valutare i progressi fatti e gli eventuali aggiustamenti al protocollo. Per questa sperimentazione (trial Fit4TeleNeuro) abbiamo già arruolato 150 pazienti, ma a regime arriveremo a 300: sarà il più grande trial clinico di teleriabilitazione mai realizzato e coinvolgerà anche altri dieci centri italiani».
Collaborate anche con altri Paesi?
«Sì, partecipiamo anche a progetti di ricerca europei, come nel caso di una sperimentazione che stiamo conducendo su un protocollo riabilitativo per i problemi di memoria. Si tratta di una terapia digitale (digital therapeutics) con esercizi cognitivi che possono essere fatti a casa attraverso una app scaricata sul tablet: sviluppata con l’aiuto di neuropsicologi, permettono di potenziare non solo la memoria, ma anche altre funzioni come quelle esecutive ed il linguaggio. Oltre ai trial che abbiamo in corso, abbiamo avviato anche una collaborazione europea per tradurre queste attività in francese e portoghese e adattarle così a diversi contesti culturali».
Gli esercizi da fare a casa sono comodi, ma spesso quello che manca ai pazienti è la costanza. Come riuscite a coinvolgerli?
«Una strategia che stiamo utilizzando è quella dell’apprendimento motorio basato su musica, ritmo e danza. Con il supporto di fisioterapisti e neuropsicologi abbiamo messo a punto un protocollo riabilitativo molto stimolante per potenziare le abilità cognitive e motorie nei giovani pazienti con sclerosi multipla e nelle persone che sono a rischio di demenza o hanno iniziato a manifestare i primi sintomi. Il programma si svolge attraverso una app, Dancerex, simile a un videogioco educativo dove un avatar aiutato dal paziente deve superare diversi livelli per progredire. Il percorso si sviluppa su tre mesi: nel primo mese si impara una coreografia di musica irlandese per sviluppare la forza degli arti inferiori, nel secondo mese si allena la motricità degli arti superiori con l’hip hop, mentre nel terzo mese si sviluppa la coordinazione di braccia e gambe con il cha cha cha. Abbiamo coinvolto 200 pazienti di tutta Italia, in collaborazione con il Fatebenefratelli di Brescia, l’Università di Milano-Bicocca e il Centro neurolesi Bonino Pulejo di Messina. Dopo due anni di test, la sperimentazione si concluderà in autunno».
Da tutte queste sperimentazioni stanno emergendo risultati interessanti?
«Certamente. Abbiamo scoperto per esempio che il cervello risponde in modo diverso alle attività proposte in base al genere: negli uomini sono più efficaci gli interventi di riabilitazione motoria, mentre le donne traggono maggiore beneficio dalle attività che si praticano in gruppo e che garantiscono una maggiore socialità. Capire come il genere influisce sui risultati della riabilitazione ci aiuterà a personalizzare meglio i nostri protocolli, anche nella prospettiva futura di adattarli all’utilizzo da parte di persone ancora in salute che vogliono fare prevenzione per invecchiare bene».
Che giudizio danno i pazienti di queste attività di riabilitazione?
«Sono molto soddisfatti, tanto che una volta finita la sperimentazione tornano a trovarci chiedendo di poter partecipare anche ad altri trial. Spesso, dopo la diagnosi, si sentono soli in balia di una malattia per cui non vengono prospettati particolari interventi. Invece, grazie ai nostri protocolli riabilitativi, si sentono finalmente accompagnati e imparano a prendersi cura di sé».