A Milano, il Niguarda e il Fatebenefratelli sono i primi ospedali italiani in cui i protagonisti della pet therapy sono i gatti. Diletta, Fast and Furious, Camomilla e Artù si fanno accarezzare dai bambini e dagli adolescenti ricoverati nelle stanze apposite. Non si tratta solo di coccolare un felino o di ascoltare le sue fusa: la cat therapy si basa su protocolli strutturati e supervisionati da professionisti formati per lavorare con animali. Quindi si distingue dai cat café o dall’avere un micio in casa. Non a caso, nelle linee guida introdotte nel 2015 nel nostro Paese, si parla di “interventi assistiti con gli animali”.

Un mondo, una salute

Ippoterapia, quando il dottore è un cavallo

Ippoterapia, quando il dottore è un cavallo
Ippoterapia, quando il dottore è un cavallo

Il progetto “Gatto, amico mio” al reparto pediatrico del Niguarda si deve a Frida’s Friends onlus, associazione che opera da anni con pet therapy nei principali ospedali del Nord Italia, con il sostegno della Fondazione Royal Canin, mentre al Fatebenefratelli il programma “Quattro zampe in corsia”, finanziato da Purina, vede alternarsi cani e felini. E in questo caso la terapia è pensata per i giovanissimi pazienti con disturbi del comportamento alimentare.
«Da 14 anni ci occupiamo di pet therapy negli ospedali, nelle Rsa e nelle scuole primarie, oltre a organizzare percorsi con cavalli e asini», dice Mario Colombo, presidente di Frida’s Friend. «Poi, nel 2019, abbiamo fatto un’esperienza molto positiva con i gatti e i bambini ipovedenti, purtroppo interrotta dal Covid. E ora abbiamo scoperto di essere i primi in tutta Europa a fare progetti con i gatti in modo stabile».

Gli esemplari più adatti
Di solito, in effetti, si preferiscono i cani. «I gatti sono più indipendenti», continua Colombo. «E poi non si tengono al guinzaglio, sono liberi e imprevedibili, non sempre amano essere toccati e in genere sono molto intimiditi da luoghi e persone nuove. Eppure, per alcuni tipi di pazienti, come i bambini e gli adolescenti, sono perfetti: basta scegliere gli esemplari giusti».
Alcune razze sono più indicate di altre. «Per la cat therapy impieghiamo principalmente i ragdoll, una razza selezionata negli anni Sessanta negli Stati Uniti e arrivata in Europa quarant’anni fa, il cui nome, “bambola di pezza”, la dice lunga sul carattere docile e dipendente dall’uomo».

I ragdoll sono gatti di taglia medio-grande e dal pelo lungo, del tutto privi di istinto predatorio, dunque molto tranquilli. Adorano essere presi in braccio e accarezzati. «Ma del nostro staff felino fanno parte anche un norvegese e un meticcio, perché conta l’indole propria dell’animale», precisa il presidente. «Con la nostra veterinaria testiamo ogni singolo esemplare per vedere se è predisposto al contatto e alla relazione con l’essere umano».

Come si svolge la seduta
È interessante scoprire che cosa succede durante la seduta. «Si lavora in una stanza dedicata, sufficientemente grande e luminosa e arredata con sedie e qualche tavolo sui quali il gatto, che ama stare in alto, possa saltare», racconta Colombo. «Poi si lavora con un paziente per volta, insieme al coadiutore, alla psicologa e a due gatti, così se uno degli animali è stanco, si può interagire con l’altro. Durante la terapia il coadiutore ha il compito di favorire la relazione spiegando al bambino come avvicinarsi e quali giochi proporre al gatto. Ma il focus non è l’animale: durante la seduta il bambino disegna, fa dei lavoretti, e il gatto può restare a osservare oppure no, senza che nessuno prevarichi sull’altro perché l’obiettivo è anche quello di costruire una relazione equilibrata».

Gli animali non giudicano
I primi studi scientifici sulla pet therapy risalgono a poco più di mezzo secolo fa e nascono tra Stati Uniti ed Europa, intrecciando osservazioni cliniche e ricerche sperimentali. «Un primo beneficio riguarda l’autostima, perché nei momenti di fragilità è molto salutare riuscire a entrare in relazione con esseri non giudicanti, che non ti “guardano strano” se zoppichi, se hai perso i capelli o sei in sovrappeso o hai la flebo al braccio», spiega Colombo. «È provato anche che il contatto con un cane e un gatto ci fa produrre ossitocina, un ormone che riduce lo stress. Dopo le sedute con i mici i bambini sono più felici, dormono meglio, rispondono bene alle cure farmacologiche. E stare a tu per tu con i gatti è anche un momento di evasione, che aiuta a stemperare l’ansia e a far passare la paura per un esame o un intervento».
E con i pazienti che soffrono di disturbi alimentari? «Purtroppo, arrivano in ospedale ragazzini sempre più giovani, anche di nove anni», dice il presidente. «Dunque sono bambini malati di un disturbo che impedisce loro di prendersi cura di sé stessi. La nascita di una relazione con il gatto è già una conquista, l’inizio di un percorso di “presa in cura”. Poi, attraverso i disegni, pian piano i piccoli pazienti riescono a esprimere le emozioni chiuse dentro di sé».