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Il cellulare a un figlio? «Vanno stabilite regole chiare fin dall’inizio», dice Giuseppe Lavenia, appena eletto presidente dell’Ordine degli psicologi delle Marche, esperto di dipendenze digitali.
 Quella fra giovani e smartphone è un’attrazione irresistibile. Da noi, oltre il 78% dei ragazzi tra gli 11 e i 13 anni utilizza internet tutti i giorni, principalmente proprio tramite il telefonino. E nella fascia d’età tra i sei e i dieci anni il 30% dei bambini ha accesso al cellulare quotidianamente. 
 A svelarlo è la XIV edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia di Save The Children. Ma per comprendere la portata del fenomeno non serve scomodare i dati, basta osservare quanto accade ogni giorno attorno a noi. A casa, fuori da scuola, al parco, nei locali, al cinema, nelle vie del centro... I teenager hanno il cellulare in mano e la testa china. «Non riescono a farne a meno perché è una slot machine tascabile, un distributore automatico di gratificazione istantanea», spiega lo psicoterapeuta, che è anche docente di Psicologia del lavoro all’Università Politecnica delle Marche. «Ogni notifica, ogni like, ogni messaggio attiva un rilascio di dopamina nel cervello, lo stesso meccanismo delle droghe e del gioco d’azzardo. Il problema dello smartphone è che è progettato per tenerli incollati allo schermo, sfruttando la loro vulnerabilità emotiva».
Professor Lavenia, lei ha scritto di recente i libri Genitori digitali (De Agostini) e Patentino digitale (Mursia). Come possiamo proteggere i ragazzi dalla tecnologia?
 «Dobbiamo educarli a un uso corretto. Peccato che noi adulti, che dovremmo essere le loro guide, spesso siamo i primi a dare il cattivo esempio. Se diciamo “aspetta” alle loro richieste perché stiamo chattando, se passiamo gran parte del tempo con in mano lo smartphone, se rispondiamo a e-mail non urgenti mentre siamo insieme, sottraendo loro attenzioni e momenti di condivisione, i nostri figli impareranno per imitazione. Siamo i primi a non essere in grado di mettere dei limiti e così facendo li esponiamo a molti rischi».


Giuseppe Lavenia, docente all’Università Politecnica delle Marche, è appena stato eletto presidente dell’Ordine degli Psicologi delle Marche. Psicoterapeuta, è anche presidente dell’Associazione nazionale Di.Te., cioè Dipendenze tecnologiche, gap e cyberbullismo. Foto I AM.
È corretto parlare di dipendenza da cellulare?
 «Sì, e non è un’iperbole. Parliamo di una dipendenza comportamentale che altera la capacità di regolarsi, proprio come accade con il cibo o il gioco d’azzardo. Ma oltre alla dipendenza, il rischio più grande è la perdita di competenze fondamentali: la capacità di stare soli con i propri pensieri, di affrontare la noia, di sviluppare empatia. Insomma, tutto ciò che serve per vivere davvero».
C’è il rischio che i giovani perdano anche la capacità di comunicare e interagire nel mondo reale?
 «Più che perderla, stanno disimparando a usarla. La conversazione faccia a faccia richiede pause, sguardi, interpretazioni silenziose. Sullo schermo, invece, tutto è filtrato, immediato, privo di complessità. Il problema non è solo la tecnologia, ma l’educazione: se un ragazzo cresce pensando che relazioni e emozioni si gestiscano a colpi di emoji, sarà un adulto incapace di leggere il mondo fuori dallo schermo».
Che ruolo hanno i social?
 «I social sono l’arena in cui si costruisce (o si distrugge) l’identità dei ragazzi. Il rischio è che diventino una vetrina in cui si esiste solo se si è visibili, un palcoscenico dove la performance conta più della verità. L’opportunità è usarli per creare connessioni autentiche, per scoprire nuovi punti di vista. Ma serve un’educazione emotiva che aiuti i giovani a distinguere tra la vita vera e il grande Truman Show digitale».
Tuttavia, non ci sono solo lati negativi…
 «Lo smartphone è un portale, e dipende da cosa ci metti dentro. Può essere uno strumento di conoscenza, di esplorazione, di creatività. Può connettere a contenuti di valore, a menti brillanti, a stimoli culturali impensabili fino a pochi anni fa. Ma, come un coltellino svizzero, va saputo usare. Il problema non è lo strumento, ma l’assenza di una guida».
Andiamo per ordine allora: da che età concedere il primo cellulare?
 «Non esiste una risposta unica, ma c’è un principio di base: prima si sviluppano le competenze per gestire lo strumento e meglio è. Deve essere un percorso graduale, necessariamente guidato dagli adulti. Dare uno smartphone a un bambino senza educarlo al suo uso è come dargli le chiavi della macchina senza insegnargli a guidare. Stiamo sempre vicino ai nostri figli per vedere cosa stanno facendo online, parliamo loro di privacy, comportamenti appropriati, sicurezza e rischi, osserviamo le loro azioni e reazioni, controlliamo i contenuti che guardano, parliamo di quello che vedono. Impariamo anche a usare le loro stesse piattaforme e applicazioni. Idealmente, comunque, non si dovrebbe dare il cellulare prima dei 12 anni, e mai senza regole ben precise per l’uso».
Ecco, con quali regole accompagnare il dono del cellulare?
 «Un cellulare non è un regalo, è una responsabilità. Le regole dovrebbero essere chiare fin da subito: niente schermo prima di dormire e durante i pasti, limiti di tempo, controllo sui contenuti. Ma la regola più importante che l’adulto deve fornire è un modello virtuoso. Se il genitore è il primo a cenare con il telefono in mano, ogni dettame diventa aria fritta».
Come capire se il figlio sta facendo un cattivo uso del cellulare?
 «Se diventa irritabile quando gli viene tolto. Se smette di fare sport, uscire, leggere. Se passa più tempo sullo schermo che con gli amici. Se il rendimento scolastico crolla. Se è ossessionato dai like e dai commenti. Se fa fatica a dormire e si sveglia stanco. Quando il virtuale prende il sopravvento sulla vita reale, è ora di intervenire».
Come correggere il tiro quando la situazione sta sfuggendo di mano?
 «Con decisione e coerenza. Non servono punizioni, ma confini chiari. Non si tratta di “togliere il cellulare”, ma di riequilibrare il suo uso. Serve un dialogo, non una guerra. È importante capire cosa significa per i ragazzi stare online, quali emozioni provano. E, soprattutto, noi genitori dobbiamo essere disposti a cambiare le nostre abitudini digitali, perché – non mi stancherò mai di dirlo – il primo esempio viene da noi. Meno smartphone per i genitori significa meno dipendenza per i figli».
Quali strategie pratiche si possono mettere in atto per “disintossicare” i figli?
 «Creiamo momenti senza schermi, come pasti e serate in famiglia, e luoghi off limits dove non usare la tecnologia. Offriamo alternative reali: sport, hobby, esperienze. Limitiamo l’uso con regole chiare, senza compromessi. Parliamo, ascoltiamo, siamo presenti. Sediamoci accanto a loro e raccontiamo le nostre giornate, coinvolgiamo nelle scelte di famiglia, motiviamo le nostre posizioni. Riempiamo i silenzi, in cui ognuno è assorto dal suo mondo online, con chiacchiere e condivisione. La verità è che i ragazzi non hanno bisogno di meno tecnologia, ma di più relazione. Sta a noi offrirgliela».















