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Lorenzo Brambilla, responsabile del dipartimento di Riabilitazione cardiorespiratoria della Fondazione Don Gnocchi (foto di Manuel Cicchetti)
Tapis roulant, cyclette, attrezzi e pesi: a prima vista può sembrare una comune palestra, in realtà siamo nel reparto di Riabilitazione cardiorespiratoria del centro Santa Maria Nascente a Milano. È una delle sedi in cui lavora da più di vent’anni il cardiologo Lorenzo Brambilla, responsabile del dipartimento di Riabilitazione cardiorespiratoria oltre che direttore medico e socio-assistenziale della Fondazione Don Gnocchi. Lo specialista dei cuori in difficoltà.
«L’esercizio fisico è come un farmaco per chi ha avuto un infarto», racconta tra una visita e l’altra. «È la sedentarietà il grande mostro che minaccia la salute cardiovascolare. È un fattore di rischio al pari del colesterolo alto, del diabete o della pressione alta».
Dottor Brambilla, un tempo l’attività fisica veniva sconsigliata dopo un grave evento cardiovascolare, addirittura si prescriveva un lungo periodo di riposo assoluto. Oggi le cose sono cambiate…
«Assolutamente sì, c’è stata una rivoluzione copernicana. Si è capito che l’attività fisica è fondamentale per la riabilitazione cardiovascolare. Quando dico che somiglia a un farmaco, intendo anche che ai pazienti va prescritta nelle dosi, nelle modalità e nei tempi giusti, personalizzando la terapia in base alle condizioni individuali. Alla Fondazione Don Gnocchi l’esercizio fisico strutturato completa tutte le cure mediche nella fase post acuta, anche per chi è uscito da poco dalla terapia intensiva. L’importante è che il tipo di esercizio venga indicato da un team specializzato e che i suoi effetti siano monitorati nel tempo con attenzione».
La riabilitazione fisica è indicata per tutti i cuori malati?
«In teoria sì, anche se in alcune condizioni particolarmente delicate può essere necessario raggiungere la migliore stabilizzazione clinica prima di iniziare. L’attività fisica può favorire il recupero in caso di scompenso cardiaco, cardiopatia ischemica e infarto, patologie delle valvole cardiache, interventi di sostituzione valvolare e chirurgia dell’aorta. Al centro Santa Maria Nascente abbiamo trattato, per la prima volta, perfino un paziente con cuore artificiale totale».
Cioè un paziente con un dispositivo nel petto che pompa il sangue in circolo?
«Sì, il cuore artificiale è un supporto meccanico utilizzato quando il cuore fatica a fare il suo mestiere. Come dicevo, anche in un caso come questo, il movimento si è rivelato fondamentale per il miglior recupero e sicuro».
Nel vostro reparto accogliete anche chi soffre di insufficienza respiratoria?
«Esatto, perché la riabilitazione fa la differenza anche per quelle persone che soffrono di insufficienza respiratoria, a causa per esempio della broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) o di alcune patologie neurologiche gravi come ad esempio la sclerosi laterale amiotrofica (Sla). In casi particolari, usiamo l’attività fisica riabilitativa cardiorespiratoria come preparazione o pre-abilitazione del paziente in vista di terapie o interventi particolarmente impegnativi».
Che genere di attività fisica viene prescritta ai pazienti?
«Oggi sappiamo che si possono avere grandi benefici dall’esercizio aerobico (come la camminata, la cyclette eccetera), ma è altrettanto importante l’attività di tonificazione e rinforzo muscolare, che si ottiene con pesi ed esercizi a corpo libero e l’attività specifica di recupero della funzione respiratoria. Ovviamente l’attività fisica va cominciata in modo graduale, specialmente nei pazienti usciti dalla terapia intensiva e che sono stati sottoposti a interventi importanti che prevedono la sternotomia, cioè l’incisione dello sterno per accedere alla cavità toracica e al cuore».


Lorenzo Brambilla è anche direttore medico e socio-assistenziale della Fondazione Don Gnocchi. È nato nel 1973 a Parma, dove si è laureato in Medicina e dove lavora ancora come cardiologo seguendo i pazienti in laboratorio. La foto è di Manuel Cicchetti.
Con quali tempi e modalità va fatto l’esercizio?
«Il percorso va deciso con un lavoro di squadra che vede coinvolti medici, fisioterapisti, infermieri, nutrizionisti e psicologi. Cruciale per curare e riabilitare bene è il lavoro multidisciplinare di valutazione dei bisogni della persona operato da tutti i professionisti del team. Bisogna conoscere il paziente nella sua globalità per capire le sue condizioni, le abilità residue e soprattutto il grado di autonomia e di capacità di tollerare anche i minimi sforzi. Nei primi giorni si lavora sul recupero della mobilità elementare, come la capacità di camminare. Poi inizia la seconda fase in cui i pazienti lavorano praticando esercizi per la respirazione e la riattivazione di tutti i gruppi muscolari, con l’ausilio di strumenti come la palla o il bastone e facendo piegamenti sulle gambe. La fase successiva si svolge in palestra, dove si fa riscaldamento, rinforzo muscolare, esercizi al tapis roulant e alla cyclette. L’attività fisica in questo caso può essere svolta in modo continuo con carico crescente oppure intervallata da pochi minuti di recupero».
Il lavoro continua anche dopo aver lasciato l’ospedale?
«Certamente, ma sempre in maniera oculata. In vista delle dimissioni sottoponiamo il paziente a una prova da sforzo cardiopolmonare su cyclette o tapis roulant, spesso combinata con l’analisi dei gas respiratori: in questo modo valutiamo la capacità funzionale, il picco del consumo di ossigeno, la risposta in termini di frequenza cardiaca e pressione arteriosa e l’eventuale insorgenza di aritmie durante lo sforzo. Queste informazioni ci servono per prescrivere l’esercizio fisico in maniera personalizzata e sicura anche in situazioni di particolare complessità, con chiare indicazioni rispetto al range della frequenza cardiaca da tenere durante l’attività».
Quali risultati si possono ottenere nel lungo periodo?
«Gli studi scientifici disponibili in letteratura ci dicono che l’esercizio fisico strutturato migliora la qualità di vita, riduce le ospedalizzazioni e la mortalità: combinato con il controllo di altri fattori di rischio cardiovascolare (come il fumo, l’ipertensione, l’ipercolesterolemia e il diabete) può aumentare la sopravvivenza fino al 30%. Tutte le linee guida riconoscono che è uno strumento eccezionale, ma lo scenario che ci troviamo davanti è sconfortante: ai servizi di cardioriabilitazione accede non più del 30% delle persone che ne avrebbero indicazione. Ci sono poche risorse dedicate e molti pazienti finiscono per abbandonare il percorso intrapreso e i grandissimi benefici che ne derivano a lungo termine».
Quali strategie andrebbero adottate per migliorare l’aderenza dei pazienti alla terapia fisica indicata?
«Uno degli strumenti più interessanti che abbiamo a disposizione è la teleriabilitazione, che consente di superare le barriere di tempo e spazio andando incontro alle esigenze dei pazienti dimessi. Il nostro dipartimento ha recentemente condotto una revisione degli studi scientifici che ne hanno valutato l’impiego nel post-infarto, nello scompenso cardiaco e nella Bpco. I risultati dimostrano che la teleriabilitazione è un’arma efficace tanto quanto la riabilitazione fatta in presenza e può completarla in percorsi di presa in carico misti e a distanza».
Ci sono già esperienze concrete in questo campo?
«Si sono fatti importanti passi avanti dopo il Covid, ma la teleriabilitazione non è ancora ben standardizzata. Per impiegarla in ambito clinico, dobbiamo prima raccogliere dati che ci permettano di capire come sfruttarla al meglio. La Fondazione Don Gnocchi è all’avanguardia e sta già conducendo diverse sperimentazioni. Abbiamo in corso Prometeo, un progetto sulla teleriabilitazione per lo scompenso cardiaco finanziato dal Pnrr e realizzato in collaborazione con altri importanti partner nazionali in ambito cardiologico. E c’è anche Enea, un sottoprogetto di Prometeo interamente gestito da Fondazione Don Gnocchi, che sta valutando l’efficacia dei percorsi riabilitativi e della teleriabilitazione in una quarantina di pazienti “speciali”, in quanto sottoposti a trapianto cardiaco».
State provando anche altri strumenti per favorire il coinvolgimento dei pazienti?
«Nel centro Santa Maria Nascente a Milano, per esempio, abbiamo messo a punto un programma di nordic walking per pazienti ad alto rischio cardiovascolare e metabolico seguiti presso i nostri ambulatori: per loro abbiamo disegnato dei circuiti nei parchi cittadini da percorrere in gruppo due o tre volte alla settimana, sotto la nostra supervisione e di un istruttore specializzato, con l’obiettivo di migliorare l’aderenza alla terapia grazie alla condivisione».
Altre ricerche?
«Cerchiamo soluzioni che aiutino anche i pazienti più gravi, come quelli colpiti da shock cardiogeno, cioè vittime di infarto, aritmie o altre patologie che rallentano o bloccano il cuore con gravi conseguenze per tutto l’organismo. Questa condizione viene trattata ancora in maniera difforme sul territorio italiano. Con il progetto Enigma-Shock stiamo confrontando e integrando i percorsi di cura seguiti nelle diverse strutture dai pazienti che hanno fatto registrare i miglioramenti più significativi. L’obiettivo è creare un percorso standardizzato che possa essere adottato da tutti gli ospedali. Diceva Don Carlo Gnocchi che la riabilitazione dev’essere intesa come la “restaurazione della persona umana”».
La mappa dei reparti di Riabilitazione cardiorespiratoria della Don Gnocchi
Il dipartimento di Riabilitazione cardiorespiratoria della Fondazione Don Gnocchi è presente sul territorio nazionale nelle sedi di:
• Irccs Santa Maria Nascente di Milano;
• Centro Spalenza di Rovato (Brescia);
• Centro Santa Maria ai servi di Parma;
• Centro Santa Maria alla Pineta di Marina di Massa (Massa Carrara);
• Irccs Don Carlo Gnocchi di Firenze;
• Polo specialistico riabilitativo di Sant’Angelo dei Lombardi (Avellino);
• Centro Gala di Acerenza (Potenza).
Vi si può accedere sia tramite il Servizio sanitario nazionale sia privatamente. Ogni anno vengono ricoverati e dimessi in media 2.550 pazienti, a cui poi si sommano quelli che accedono quotidianamente ai servizi ambulatoriali.