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Si chiama “Caruso” lo studio che prova come un farmaco riduca colesterolo cattivo e placca carotidea, abbattendo di sette volte il rischio di infarto e ictus ed eventi vascolari. A idearlo è stata Tiziana Aranzulla, cardiologa dell’ospedale Mauriziano di Torino, che ha scelto di unire ricerca e vita personale. Dietro l’acronimo (che riassume CARotid plaqUe StabilizatiOn and regression with Evolocumab) non c’è solo la descrizione tecnica del progetto, ma anche un richiamo alla celebre canzone di Lucio Dalla, che lei ha cantato e suonato tante volte al pianoforte, una delle sue passioni.


Tiziana Aranzulla, cardiologa all'ospedale Mauriziano di Torino, autrice di uno studio che ha dimostrato l'efficacia di Evolocumab nella riduzione del rischio di eventi cardiovascolari
Ogni medico porta con sé storie che non si leggono nelle cartelle cliniche e da quell’intreccio di competenza e sensibilità è nato un lavoro che dimostra come un farmaco speciale, l’Evolocumab, sia capace di ridurre il rischio di eventi vascolari. Si tratta di un anticorpo monoclonale, cioè di una molecola che si comporta come gli anticorpi naturali dell’organismo e che è progettata per legarsi in modo specifico a un unico bersaglio (antigene). In questo caso si lega a una proteina (PCSK9) e la inibisce. Favorisce così un aumento dei recettori Ldl sul fegato, ossia di quelle porticine nelle cellule attraverso cui avviene la rimozione del colesterolo Ldl, quello “cattivo”, dal sangue. Abbassare l’ipercolesterolemia significa ridurre il rischio di eventi cardiovascolari.
Una scommessa vincente
Tutto ha avuto inizio nel 2016, con un paziente torinese di 78 anni, avvocato penalista, che Aranzulla seguiva da tempo. «Durante le udienze avvertiva episodi simili a vertigini, che mi spinsero a prescrivere un ecodoppler delle carotidi», ricorda la cardiologa. L’esame – un’ecografia vascolare che consente di valutare lo stato delle carotidi e delle arterie vertebrali, oltre al flusso di sangue verso il cervello – rivelò una placca ostruttiva del 70-75%, un restringimento severo. Il paziente, però, rifiutava l’intervento chirurgico, spaventato dai possibili rischi e determinato a non fermarsi per motivi professionali e personali.
A quel punto Aranzulla decise di tentare un approccio diverso: «Proposi l’Evolocumab, un farmaco allora disponibile soltanto come campione per casi particolari. Nonostante la terapia con statine, i valori di colesterolo restavano elevati: quella era l’unica possibilità per abbassarli e provare a ottenere una regressione della placca».
La scommessa si rivelò vincente. Nel giro di un anno e mezzo la stenosi carotidea si ridusse in modo significativo, fino a rendere superfluo l’intervento chirurgico.
Risultati oltre le aspettative
Da quella storia personale è nata la domanda scientifica: era solo un caso isolato o una possibilità concreta per tanti altri pazienti? Grazie alla Cardiologia del Mauriziano, diretta da Giuseppe Musumeci, con il coinvolgimento della Chirurgia vascolare dello stesso ospedale, guidata da Andrea Gaggiano, e con la partecipazione della diabetologia dell’Asl Città di Torino, diretta da Salvatore Oleandri, ha preso il via lo studio “Caruso”.
Sono stati arruolati 170 pazienti con stenosi carotidea pari o superiore al 50% e colesterolo Ldl oltre i 100 mg/dl. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: il primo ha seguito la terapia standard massimale con statine ed ezetimibe, il secondo ha aggiunto l’Evolocumab.
I risultati parlano chiaro. Nei pazienti trattati con l’anticorpo monoclonale il colesterolo Ldl si è ridotto in media del 73,5% (contro il 48,3% con la sola terapia standard), un abbassamento drastico che si è rivelato efficace non solo nei pazienti coronarici, ma anche in quelli con stenosi carotidea. «Le placche aterosclerotiche, inoltre, si sono ridotte con entrambe le terapie, ma hanno mostrato una minore progressione verso i tipi a più alto rischio grazie all’Evolocumab», riferisce Aranzulla.
Ma il dato più sorprendente è arrivato sul fronte clinico. Già nell’arco di un anno, l’incidenza di eventi vascolari gravi – infarto, ictus, rivascolarizzazioni coronariche o carotidee, ischemie periferiche alle gambe o all’aorta – si è fermata al 2,4% nei pazienti trattati con Evolocumab, contro il 14,4% di chi seguiva soltanto la terapia orale. In altre parole, il rischio di andare incontro a un evento cardiocerebrovascolare si è ridotto di sette volte.
I risultati dello studio sono stati appena presentati all’ESC Cardiovascular Meeting, il maggiore congresso internazionale di cardiologia.
Non è per tutti
Essendo un farmaco costoso, l’Evolocumab può essere prescritto solo con un piano terapeutico redatto da specialisti (cardiologo o endocrinologo) e al momento è riservato solo a chi può trarne reale beneficio, perché presenta le due caratteristiche dei pazienti arruolati per lo studio:
• stenosi carotidea pari o superiore al 50%;
• colesterolo Ldl oltre i 70 mg/dl.
In generale, la prima linea di trattamento del colesterolo resta sempre la terapia con statine (e, se necessario, con ezetimibe) e l’uso di cardioaspirina. Solo se questi approcci non permettono di raggiungere i valori ottimali di colesterolo si può valutare l’Evolocumab.
«La mia più grande soddisfazione è vedere che la fiducia dei pazienti e la ricerca scientifica possono trasformarsi in vite salvate», conclude Aranzulla. «Questo studio dimostra che la medicina, quando unisce competenza e umanità, non cura solo malattie, ma restituisce speranza».











