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Alessandra Sorrentino, copywriter in un’agenzia di comunicazione, tiene un blog in cui racconta la sua esperienza con l’emicrania ed è presidente di Alleanza Cefalalgici, associazione di pazienti che supporta le persone che convivono con l’emicrania e altre forme di cefalea primaria. La foto è di Francesco Rossi e Nadir Bonazzi.
Il primo ricordo che ho dell’emicrania è di un pomeriggio d’estate. Avrò avuto circa quattro anni. Fuori c’era il sole, mio fratello giocava, mentre io ero sdraiata a letto con un dolore lancinante sugli occhi e la luce che sembrava volermi trafiggere letteralmente gli occhi. Quel pomeriggio volevo andare al mare, io che ho sempre amato il mare. Ma non ci sono andata perché fino a sera quel dolore è rimasto lì a scandire il tempo che passava.
Di giornate così ne ho trascorse tante. Infinite. Sono cresciuta abituandomi al dolore, all’idea che quel dolore avrebbe fatto parte della mia vita e l’avrebbe condizionata irrimediabilmente. L’emicrania è mia compagna di vita da 38 anni ormai (oggi ne ho 42). E, spesso, sorrido dicendo che ho una discreta carriera alle spalle. Sorrido, oggi mi posso permettere di sorridere, perché negli ultimi cinque anni ho intrapreso un percorso terapeutico che mi ha permesso di gestire la malattia, di acquisire una consapevolezza diversa e di smettere di combatterla, odiarla e rifiutarla.
Ma non è stato un percorso semplice.
Come accade a tutte le persone che soffrono di questa malattia, per lunghi anni ho vagato alla ricerca estenuante di una causa, di un colpevole da individuare e da sconfiggere.
«A scuola ero la sfigata»
La prima diagnosi ufficiale l’ho avuta a 23 anni. Ma non è stata sufficiente per farmi fermare in quel centro cefalee. Probabilmente perché l’adolescenza era stata contrassegnata da troppa sofferenza, fisica ed emotiva, e quindi non era accettabile sentirmi dire che avrei vissuto una vita intera così. Per tanti anni a scuola sono stata etichettata come la “sfigata”: se correvo o saltavo durante le lezioni di educazione fisica, stavo male; durante le gite scolastiche stavo male; mi è persino capitato di svenire in classe. E il ricordo di quella vergogna, di quel senso di inadeguatezza, per tanti anni mi è rimasto letteralmente appiccicato addosso.
Dopo quella visita è iniziato un pellegrinaggio di anni: altri centri cefalee, dentisti, osteopati, nutrizionisti, oculisti. Non trovavo pace perché nulla funzionava. Mi sembrava di trovare sollievo per qualche giorno, poi il dolore tornava. E quando guardavo il diario delle cefalee mi arrabbiavo, la frustrazione era tanta perché non potevo credere che ogni tentativo fosse vano.
La mia vita andava avanti, non poteva essere altrimenti. Mica si può fermare il tempo, lui scorre e tu pensi costantemente che dovrai rinunciare a tante cose, che ci saranno sempre momenti di totale blackout in cui il mondo vive senza di te, nonostante te e il tuo dolore. Mi sono laureata, ho iniziato a lavorare e gli attacchi sono peggiorati nel tempo. Sempre più invalidanti e l’unico strumento che credevo di avere a disposizione erano i farmaci antidolorifici di cui negli anni ho abusato.
Andavo al lavoro con la testa che scoppiava, ingoiando l’ennesima pastiglia. Andavo al lavoro e mi scontravo con il pregiudizio di chi pensava che il mal di testa fosse solo una scusa perché non avevo voglia di fare nulla. Dopo il bullismo a scuola, anche il mobbing a lavoro. Dopo i pianti disperati dell’adolescenza, sono arrivati gli attacchi di panico della vita da adulta. Sdraiata per terra in bagno, tremante con i denti che battevano e con la fame d’aria di chi per il dolore non riesce nemmeno a respirare.
Quante vacanze rovinate dal mal di testa. Quante serate passate a letto mentre i miei amici e le mie amiche uscivano a divertirsi. Quanti saggi di danza ballati con il dolore e la nausea. Finché nel 2021, quando ormai convivevo con il dolore quotidiano, una media di 25 giorni di mal di testa al mese, dopo la morte di mia nonna, è cambiato tutto.
«La malattia non fa più paura»
Sono stata ricoverata otto giorni al centro cefalee di Pavia perché assumevo così tanti antidolorifici che è stato necessario fare una vera e propria disassuefazione. Lì, in quella stanza dove ho trascorso le prime 96 ore in preda al dolore e al vomito, ho iniziato a scrivere sul mio blog: desideravo aiutare chi si sentiva come me, sola e incompresa. Lì è iniziato il percorso di accettazione della mia malattia e per la prima volta, a 38 anni, ho capito che avevo una malattia neurologica da cui, sì, non sarei mai guarita, ma che c’era qualcuno di fianco a me che mi avrebbe aiutata a gestirla con le terapie giuste.
Da quel ricovero sono passati ormai quattro anni. E Alessandra oggi è una persona molto diversa. L’emicrania è ancora parte di me, ma non mi definisce più. Anzi, credo che mi abbia insegnato molto su come prendermi cura di me stessa, su come ascoltare il mio corpo e il mio cervello. Mi ha insegnato anche come stare accanto a tutte le persone che soffrono di questa patologia, come porgere loro la mia mano affinché si sentano accolte e comprese.
La malattia non mi fa più paura. La paura del dolore non mi perseguita più. Ci sono ancora cose che non posso fare, ci sono cose a cui ogni tanto devo ancora rinunciare, ma il mio tempo non è più scandito dalla malattia. Non sopravvivo più all’emicrania, vivo con lei.
Testimonianza di Alessandra Sorrentino, copywriter in un’agenzia di comunicazione e autrice di un blog in cui racconta la sua esperienza con l’emicrania; è anche presidente di Alleanza Cefalalgici, associazione di pazienti che supporta le persone che convivono con l’emicrania e altre forme di cefalea primaria.