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Marco Germanotta è il responsabile del Centro di eccellenza per la riabilitazione robotica della Fondazione Don Carlo Gnocchi, istituito presso il Centro Santa Maria al mare di Salerno (foto di Giulio Piscitelli)
C’è un padiglione che si affaccia sul golfo di Salerno. Dentro, 12 telecamere osservano ogni passo, ogni oscillazione, ogni piccolo movimento di chi entra. Piccoli sensori, applicati sul corpo, trasformano una camminata in una mappa di dati.
Siamo nel Laboratorio di analisi del movimento e neurofisiologia del centro di eccellenza per la riabilitazione robotica della Fondazione Don Gnocchi di Salerno. È un punto di riferimento per la Campania e il Mezzogiorno ed è stato inaugurato qualche mese fa, a maggio del 2025. Il responsabile è un giovane ingegnere biomedico, Marco Germanotta, convinto che sia importante portare la tecnologia anche nelle strutture del sud, contribuendo a ridurre le disuguaglianze territoriali.
Ingegnere Germanotta, che tipo di informazioni raccogliete grazie alle telecamere?
«Sul corpo del paziente vengono applicati piccoli sensori retroriflettenti, simili a minuscole sfere, posizionati in corrispondenza di articolazioni e punti anatomici precisi, i cosiddetti “punti di repere”. Le nostre telecamere non registrano immagini tradizionali: emettono fasci di luce infrarossa che vengono riflessi dalla superficie dei sensori e poi rilevati dal sistema stesso. Da questi segnali otteniamo la posizione esatta di ogni punto nello spazio e possiamo ricostruire una vera e propria mappa tridimensionale del movimento. Attraverso modelli biomeccanici complessi ricostruiamo come si muove lo scheletro, quasi come se i tessuti superficiali diventassero trasparenti. È la stessa tecnologia che si usa al cinema per dare vita ai personaggi digitali, a partire dai movimenti reali degli attori, ma qui è al servizio della riabilitazione. A seconda delle esigenze cliniche, possiamo concentrarci su una parte specifica – per esempio le gambe, per studiare la camminata – oppure osservare l’intero corpo. Questo ci permette di capire come ogni zona influenzi le altre: anche un piccolo movimento anomalo del braccio può modificare ritmo, postura ed equilibrio».


La valutazione del movimento di un paziente del centro Don Gnocchi attraverso 12 telecamere (foto di Giulio Piscitelli)
Perché 12 telecamere?
«Ogni telecamera osserva i sensori da un’angolazione diversa. Per ricostruire il movimento nello spazio servono almeno due prospettive, un po’ come accade con i nostri occhi: il cervello combina due immagini bidimensionali per ottenere una visione tridimensionale. Con 12 telecamere possiamo garantire che, in ogni momento, ciascun sensore sia sempre “visto” da almeno due obiettivi. Questo ci permette di seguire con grande precisione anche i movimenti più complessi e di analizzare ogni dettaglio del recupero motorio».
Come usate i dati raccolti?
«Su tre livelli diversi. Il primo è quello valutativo, per capire se ci sono stati miglioramenti, se il movimento è più fluido, simmetrico».
Il secondo livello?
«È diagnostico. Sincronizziamo le telecamere con un sistema di elettromiografia di superficie, che registra l’attività dei muscoli durante il movimento. Questo ci permette di vedere se i muscoli giusti si attivano al momento giusto o se il corpo “improvvisa” soluzioni diverse. Grazie a due piattaforme di forza integrate nel pavimento, siamo in grado di capire quanta forza esercita il paziente mentre cammina e stimare il contributo delle varie articolazioni alla generazione del movimento stesso. Infine, la terapia: tutti questi dati ci aiutano a costruire un percorso riabilitativo su misura».
Oltre al movimento, analizzate l’attività del cervello.
«Utilizziamo un sistema ad alta densità, con 128 canali, per registrare l’attività elettrica del cervello, mentre il paziente è a riposo oppure compie un movimento. Possiamo immaginare il cervello come una rete di città collegate da autostrade, formando una rete complessa e dinamica. Dopo un ictus, alcune di queste connessioni possono interrompersi e alcune “città” restano isolate. Con il tempo, però, il cervello riesce a rafforzare le connessioni presenti e a costruire nuove strade, nuovi collegamenti. Esistono numerose metriche che descrivono le caratteristiche di questa rete, grazie alle quali possiamo ottenere informazioni cruciali sull’efficacia del trattamento, ma anche fattori prognostici di recupero».
La tecnologia vi permette di osservare dettagli che l’occhio umano non coglie.
«Innanzitutto ci consente di rendere oggettivi i risultati: possiamo sapere se una terapia funziona davvero, non solo percepirlo. Ma soprattutto ci aiuta a personalizzare il percorso di ogni paziente, individuando su quali muscoli, movimenti o strategie conviene lavorare».
Il vostro centro è immerso in un ambiente mediterraneo. Quanto contano il luogo, la luce e lo spazio nel percorso di recupero?
«Moltissimo. La palestra di riabilitazione robotica guarda direttamente sul mare: la luce naturale, il silenzio e la sensazione di apertura aiutano il paziente a concentrarsi e a ritrovare motivazione. Fare riabilitazione in un luogo bello e accogliente cambia l’esperienza: la mente si rilassa, l’umore migliora e questo ha un impatto reale sul percorso di recupero».
I vostri pazienti sono soprattutto persone colpite da ictus?
«Seguiamo sia pazienti adulti con disturbi di origine neurologica, come ictus, sclerosi multipla o malattia di Parkinson, sia bambini con paralisi cerebrale».
Come trasformate i dati in decisioni terapeutiche concrete?
«È un lavoro di squadra. Gli ingegneri forniscono le misurazioni, ma l’interpretazione è sempre condivisa con medici e fisioterapisti. I dati non sostituiscono l’esperienza clinica, la potenziano: aiutano a orientare meglio le scelte».


Un momento della fase riabilitiva, su misura per ogni paziente (foto di Giulio Piscitelli)
Presso il vostro centro salernitano seguite anche altri progetti?
«Il principale è Fit for medical robotics, un’iniziativa finanziata dal ministero dell’Università e della ricerca nell’ambito del Piano complementare al Pnrr. È proprio grazie a questa iniziativa che siamo riusciti a dare vita al nostro Centro di eccellenza. L’obiettivo è portare la robotica riabilitativa nella pratica quotidiana, rendendola parte integrante del percorso di cura. Nell’ambito di questo progetto, il Laboratorio di analisi del movimento e neurofisiologia gioca un ruolo cruciale, perché ci permette di misurare in modo oggettivo l’efficacia dei dispositivi robotici. Poi ci sono due nuovi progetti. Il primo è dedicato alla promozione del benessere dei lavoratori, in particolare dei nostri operatori sanitari, in cui andremo a studiare la movimentazione dei pesi al fine di prevenire patologie muscolo-scheletriche. Il secondo è finalizzato a validare un sistema indossabile per il monitoraggio dei parametri fisiologici e motori nei pazienti con sclerosi multipla. L’obiettivo è portare la misura fuori dal laboratorio, nella vita quotidiana».
Come immagina il futuro della riabilitazione?
«Credo in un futuro fatto di tecnologie semplici, intelligenti e accessibili, che possano arrivare fino a casa del paziente, per garantire la continuità di cura. Oggi le tecnologie indossabili non raggiungono ancora l’accuratezza dei laboratori di analisi del movimento, ma grazie all’intelligenza artificiale potremo presto ottenere la stessa qualità del dato anche con strumenti semplici, come la videocamera di uno smartphone, in contesti di vita reale. Il nostro obiettivo non è far muovere bene il paziente in laboratorio, ma nel suo mondo».









