Ci sono pazienti che non possono più parlare, ma il loro corpo continua a raccontare. Lo fa in silenzio, attraverso un impulso nervoso, una vibrazione elettrica invisibile nel cervello. Sono tracce flebili, spesso nascoste, e decifrarle è una sfida complessa: significa ascoltare chi non può muoversi né comunicare, nemmeno con lo sguardo. Altri pazienti, colpiti da un ictus, non alzano il braccio, altri, dopo un’emorragia cerebrale, hanno un lato del corpo paralizzato.

Salute e medicina

Con i robot raddoppia l’efficacia della riabilitazione neuromotoria

Con i robot raddoppia l’efficacia della riabilitazione neuromotoria
Con i robot raddoppia l’efficacia della riabilitazione neuromotoria

Ad aiutarli non sono soltanto i medici e gli infermieri. Ormai, nei centri avanzati, lavorano dietro le quinte i bioingegneri, che affiancano il lavoro delle macchine a quello degli esseri umani. Così accade all’Air Lab – Artificial intelligence for rehabilitation laboratory del Don Gnocchi di Firenze, un Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs). In questa struttura d’eccellenza a guidare il team di scienziati è Andrea Mannini, un quarantenne che si è laureato all’Università di Pisa.

Mannini, di che cosa si occupa l’ingegneria biomedica?
«Il mio è un ramo dell’ingegneria che applica la tecnologia e i principi della fisica, della matematica e della chimica alla sanità e alle scienze della vita e della salute. Un bioingegnere può progettare apparecchiature elettromedicali, per fare un esempio. Con la mia squadra, qui a Firenze, usiamo l’intelligenza artificiale nella fase di riabilitazione e ci concentriamo in maniera prioritaria sui pazienti neurologici, quindi colpiti da ictus, traumi cranici o gravi cerebrolesioni acquisite».

Mannini con un paziente. Il suo lavoro si svolge all’Air Lab dell’Istituto Don Gnocchi di Firenze, un laboratorio che lavora per portare l’intelligenza artificiale nella medicina riabilitativa e aiutare i medici nelle decisioni quotidiane. La foto è di Simone Donati.
Mannini con un paziente. Il suo lavoro si svolge all’Air Lab dell’Istituto Don Gnocchi di Firenze, un laboratorio che lavora per portare l’intelligenza artificiale nella medicina riabilitativa e aiutare i medici nelle decisioni quotidiane. La foto è di Simone Donati.

Mannini con un paziente. Il suo lavoro si svolge all’Air Lab dell’Istituto Don Gnocchi di Firenze, un laboratorio che lavora per portare l’intelligenza artificiale nella medicina riabilitativa e aiutare i medici nelle decisioni quotidiane. La foto è di Simone Donati.

In che modo l’intelligenza artificiale viene in aiuto?
«Offre risposte personalizzate, adatte a ogni singola persona. Lo fa perché è statistica avanzata, cioè è in grado di analizzare enormi volumi di dati prelevandoli dalle cartelle cliniche elettroniche, dalle immagini cerebrali come quelle della Tac, ma anche da test neuropsicologici, da valutazioni motorie e funzionali. Tutte queste informazioni vengono elaborate da algoritmi, da procedimenti matematici che comparano, con calcoli velocissimi, la realtà del paziente con migliaia di casi simili già analizzati. L’intelligenza artificiale identifica correlazioni che l’occhio umano farebbe fatica a cogliere e restituisce un valore, un numero che ci aiuta nelle stime e nelle scelte. Questo fa la differenza in diversi momenti del percorso».

Per esempio?
«Per esempio, possiamo avere questa stima in un paziente o in una paziente colpiti da ictus: “Probabilità di recupero della deambulazione indipendente del 75% con riabilitazione intensiva entro tre mesi”. Definire fin da subito un percorso realistico è fondamentale per chi non sta bene ma anche per venire incontro alle famiglie che devono organizzarsi al meglio in vista del ritorno a casa dei propri cari».

Si può definire un piano riabilitativo su misura?
«Certo, è il vantaggio della medicina di precisione offerta dall’IA. Tornando alla paziente o al paziente post ictus, siamo in grado di stabilire la riabilitazione ritagliata su di lei o su di lui, con un trattamento che può includere ogni giorno terapie fisiche convenzionali o robotiche, terapia occupazionale o logopedica».

Dunque, l’algoritmo è in grado di suggerire come ottimizzare la terapia nel tempo a disposizione per il trattamento.
«Esatto. Questi strumenti si chiamano sistemi di supporto alla decisione. Dobbiamo usare un robot riabilitativo oppure è meglio procedere con la terapia convenzionale? Ci concentriamo intanto solo sull’arto inferiore? Le risposte possono cambiare, perché man mano che il paziente procede nel percorso riabilitativo i dati aggiornati possono far adattare la previsione di recupero».

Naturalmente è il medico che ha l’ultima parola…
«L’intelligenza artificiale non toglie ruolo al medico, ma lo potenzia. Dobbiamo concepirla come un collega molto esperto, sempre disponibile e velocissimo nell’analizzare grandi quantità di dati. Faccio un esempio. Ipotizziamo l’IA suggerisca che ci sono basse probabilità di recupero cognitivo a causa di una possibile depressione o di un quadro troppo compromesso. A quel punto entra in gioco il medico, che interpreta il dato: magari sa che quella valutazione è stata fatta in un momento in cui il paziente stava vivendo una giornata particolarmente difficile. È qui che l’elemento umano fa la differenza».

Il suo lavoro è di far lavorare al meglio gli algoritmi. Voi bioingegneri li addestrate, si dice proprio così.
«Sì. L’intelligenza artificiale impara analizzando tanti casi clinici reali: si mostrano i dati iniziali e le risposte corrette fornite dai medici. Così, riesce a riconoscere schemi e a capire come collegare sintomi, diagnosi e terapie. Questo processo si chiama apprendimento automatico e, seppure sia stato introdotto già negli anni Cinquanta, è solo grazie alla potenza dei computer di oggi che possiamo davvero applicarlo in modo efficace e su vasta scala».

Quanto è affidabile?
«Dipende dal contesto. In alcuni ambiti, come la diagnostica per immagini in oncologia, gli algoritmi hanno raggiunto livelli di precisione perfino superiori a quelli umani. Nel nostro campo, invece, siamo ancora in una fase di ricerca attiva. Non esisterà mai un algoritmo infallibile al 100%, perché ci sono aspetti dell’essere umano e della sensibilità clinica del medico che non si possono tradurre in numeri: l’umore del paziente, le sue motivazioni, il supporto familiare. Tutte variabili che solamente un medico, grazie all’intelligenza emotiva che l’IA non possiede, può interpretare».

In uno studio recente avete utilizzato una nuova tecnica nei pazienti in stato vegetativo.
«Si chiama microneurografia e prevede l’applicazione di una leggera stimolazione elettrica sul nervo mediano, all’altezza del polso, tramite un elettrodo ad ago. Siccome è una tecnica molto precisa, possiamo osservare l’attività cerebrale in risposta allo stimolo e identificare biomarcatori diagnostici e prognostici».

Mannini mentre controlla una cuffia elettroencefalografica. L’ingegnere biomedico è padre di due bambini, Livia e Giulio, di 2 e 5 anni. La foto è di Simone Donati.
Mannini mentre controlla una cuffia elettroencefalografica. L’ingegnere biomedico è padre di due bambini, Livia e Giulio, di 2 e 5 anni. La foto è di Simone Donati.

Mannini mentre controlla una cuffia elettroencefalografica. L’ingegnere biomedico è padre di due bambini, Livia e Giulio, di 2 e 5 anni. La foto è di Simone Donati.

Detta altrimenti?
«Per esempio, possiamo capire quali pazienti hanno maggiori probabilità di recuperare la coscienza nei mesi successivi. Stiamo impiegando la microneurografia in un progetto di ricerca il cui obiettivo è proprio studiare i pazienti con disturbi della coscienza, come lo stato vegetativo o di minima coscienza (Tune-Beam- TUscany NEtwork for BioElectronic Approaches in Medicine, finanziato dalla Regione Toscana in collaborazione con centri di ricerca, università e atenei toscani)».

Qual è il problema delle vecchie metodiche?
«I metodi clinici convenzionali, basati sul comportamento del paziente e sulla risposta agli stimoli, possono essere influenzati da molti fattori e non riescono sempre a individuare correttamente lo stato di coscienza. Alcuni studi stimano che addirittura il 40% dei casi sia mal classificato nelle gravi cerebrolesioni acquisite: viene diagnosticato un disturbo di coscienza grave, ma quella valutazione potrebbe non essere corretta. In situazioni così delicate, i metodi computazionali avanzati possono diventare un alleato fondamentale per migliorare l’accuratezza diagnostica».

Come si può capire se un paziente ha ancora un’attività cerebrale nascosta, anche se non è in grado di comunicarla?
«È una delle domande più complesse e affascinanti della ricerca, che coinvolge neuroscienziati, neurologi, neurofisiologi e bioingegneri. Esistono diversi strumenti per cercare queste risposte, ma al momento non abbiamo ancora una tecnica definitiva, una sorta di gold standard. Noi ci stiamo concentrando in particolare sui pazienti con disturbi della coscienza, perché il loro cervello è spesso “molto silenzioso”: l’attività è ridotta al minimo. Tuttavia, confrontando i dati ottenuti da pazienti a diversi livelli di gravità, potremmo ottenere informazioni preziose per comprendere meglio cosa stia realmente accadendo».

C’è il rischio che i medici si fidino troppo degli algoritmi?
«Sì, questo fenomeno si chiama bias di automazione. Quando un sistema funziona quasi sempre bene, il medico può iniziare a fidarsi troppo, anche in situazioni dove sarebbe necessario essere cauti. In futuro, sarà fondamentale formare i medici non solo a usare l’intelligenza artificiale, ma anche a interpretarla in modo critico, mantenendo sempre un ruolo attivo nel giudizio clinico».

C’è una tecnologia “da film” che sogna di portare nel suo laboratorio?
«Dei robot intelligenti che possano interagire direttamente con il paziente, affiancare il medico e monitorare in tempo reale il percorso di riabilitazione. Questo consentirebbe di aumentare la quantità di terapia quotidiana, oggi limitata dai costi, migliorando i risultati».

Quanto conta fare rete in questo tipo di ricerca?
«È fondamentale. Se sviluppi un metodo basandoti solo sui dati di un singolo ospedale, quel metodo funzionerà bene solamente lì. Per creare soluzioni affidabili e valide ovunque, è necessario confrontarsi e collaborare. La Fondazione Don Gnocchi ha strutture distribuite su tutto il territorio italiano e organizza la raccolta dati in modo che sia rappresentativa a livello nazionale. Inoltre, partecipiamo a progetti europei che promuovono la condivisione internazionale delle informazioni, unendo esperienze e competenze per ottenere risultati migliori».

Oggi la ricerca non può più essere confinata a livello locale.
«Sì, spesso il successo dipende proprio dalla quantità e dalla qualità dei dati disponibili e dalla collaborazione tra gruppi diversi. La ricerca è come un grande mosaico: ogni pezzo, ogni dato e ogni esperienza contano, ma solo mettendo tutto insieme si può vedere l’immagine completa e aprire davvero nuove strade per cure e progresso».